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Questo stimolava la sua fantasia. Le statistiche lo avevano sempre interessato. In una serie di esperimenti scientifici il successo o il fallimento erano determinati dalle percentuali, come negli affari. Stava ora cominciando a pensare che il suo «esperimento» (applicata a lei la parola gli suonava strana) con Candice stava rivelandosi statisticamente un successo. La possibilità di ripetere gli stessi risultati nelle stesse condizioni era la caratteristica empirica di un buon esperimento, e dunque questo poteva definirsi…

I suoi pensieri andavano a ruota libera. Sempre più spesso trascorreva la notte a ruminare, ogni tanto dicendosi che avrebbe impiegato meglio il tempo dormendo.

Candice lo stupiva. Le donne avevano sempre stupito Vergil, che aveva avuto così scarse opportunità di conoscerle; ma sospettava che in Candice ci fosse qualcosa che lo stupiva ancora di più. Non riusciva ad avere un quadro preciso delle sue attitudini. La ragazza aveva smesso di prendere l’iniziativa in amore, tuttavia partecipava con notevole trasporto. Gli accadeva di pensare a lei come a una gatta in cerca di una nuova casa, che una volta trovato quel che voleva si accovacciava a fare le fusa senza più preoccuparsi di quel che le sarebbe accaduto l’indomani.

Né la sua capacità virile, né i suoi progetti di vita, pensava Vergil, potevano giustificare quella specie di soddisfatta indifferenza della ragazza.

Era riluttante a concludere che Candice gli fosse intellettualmente inferiore. Spesso era molto intuitiva, perspicace, e divertente da avere attorno. Ma le loro preoccupazioni esistenziali erano diverse. Candice credeva nei valori superficiali della vita: le apparenze, le consuetudini della società, ciò che l’altra gente faceva e pensava. A Vergil non importava niente di quel che pensavano gli altri, a meno che non venissero a interferire coi suoi progetti.

Candice accettava le cose e faceva esperienze. Vergil detestava tutto ciò che non poteva analizzare.

Sentiva d’invidiarla per questo. Gli sarebbe piaciuto prendersi una pausa dal suo continuo aggrovigliarsi nei pensieri, nei progetti, nelle preoccupazioni, in tutti quei processi in cui accumulava dati per agguantare nuovi punti di vista. Essere come Candice sarebbe stato come una perpetua vacanza dalla vita.

Candice, d’altra parte, certamente pensava che lui fosse un irrequieto, uno scontento. Lei portava avanti la propria vita evitando di fare piani, evitando i pensieri, ed evitando anche di farsi scrupoli… nessun rimorso e nessun ripensamento. Quando aveva capito che quell’uomo irrequieto, scontento era un disoccupato, la sua fiducia in lui era rimasta stranamente intatta. Forse, come una gatta, la sua preoccupazione per quel che non accadeva nelle immediate vicinanze era scarsissima.

E così lei dormiva, e lui stava lì a ruminare, tornando cento volte sui fatti accaduti alla Genetron, tormentandosi sulle conseguenze, sull’impulso chiaramente irragionevole che lo aveva spinto a iniettarsi i linfociti nel sangue, sulla sua incapacità di mettere a fuoco una qualsiasi futura linea di condotta. Vergil sollevò lo guardo al soffitto, poi si sfregò gli occhi per osservare i disegni luminosi eccitati nella rètina. Tolse la mano sinistra dal sedere di Candice e usò entrambi gli indici per premere l’esterno dei bulbi oculari e incrementare l’effetto. Ma quella notte sembrava che i suoi occhi non volessero intrattenerlo con giochi di luce psichedelici. La pressione non ottenne altro che una maggiore tenebra, punteggiata da lucori vaghi e lontani come l’alba su un altro continente.

Lasciato da parte quel giochetto infantile, dimentico delle sue elucubrazioni e tuttavia più che mai sveglio, Vergil si lasciò andare in uno stato d’inconsapevolezza, senza guardare niente, senza pensare a niente di concreto…

desideroso solo di evitare

nell’attesa del mattino

cercando di evitare

il ricordo di tutto ciò che aveva perduto

e di ciò che aveva appena guadagnato ma che poteva

essere perduto

mentre non era pronto

e continuava a essere irrequieto e scontento

inevitabilmente.

Era una domenica mattina, la terza settimana.

Candice gli porse una tazza di caffè bollente. Lui la fissò per alcuni istanti. C’era qualcosa che non andava nella tazza e nella mano di lei. Cercò a tentoni gli occhiali e se li mise, ma le lenti ferirono ancor di più i suoi occhi. — Grazie — borbottò, prendendo la tazza. Si appoggiò all’indietro sui cuscini, contro la spalliera del letto, e rovesciò alcune gocce di liquido marrone sulle lenzuola.

— Cosa pensi di fare, oggi? — chiese lei (Era implicito: cercherai lavoro? Ma Candice non metteva mai alla prova il suo senso di responsabilità, e non lo seccava con domande sulle sue intenzioni).

— Suppongo che cercherò lavoro — le rispose. Strizzò ancora gli occhi attraverso le lenti e mosse gli occhiali avanti e indietro tenendoli per una stanghetta.

— Io invece — disse lei — vado al Light per buttar giù un po’ di lavoro, poi farò la spesa in quel negozietto di verdure qui in fondo alla strada. Poi andrò a prepararmi il pranzo e mangerò da sola.

Vergil la fissò sorpreso, senza capire.

— Cosa c’è che non va? — domandò lei.

Mise gli occhiali da parte. — Perché vuoi pranzare da sola?

— Perché credo che tu stia cominciando a prendere troppo cose per scontate. Questo non mi va. Sento che tu mi accetti.

— Che c’è di sbagliato in questo?

— Niente — disse lei, paziente. S’era vestita e aveva sciolto i capelli, che le scendevano lunghi e luminosi sulle spalle. — Solo che non voglio far svanire il profumo.

— Profumo?

— Vedi, ogni relazione ha bisogno che la gatta tiri fuori le unghie di quando in quando. Io sto cominciando a credere che tu sia troppo buono per tirarle fuori, e questo non è bene.

— No — annuì Vergil, distratto.

— Non hai dormito questa notte? — volle sapere lei.

— No — disse Vergil. — Non molto. — Si accigliò, perplesso.

— Allora perché mi guardi così?

— Ti sto vedendo perfettamente.

— Mi vedi? Nel senso che prendi per scontata la mia presenza?

— No, voglio dire… senza gli occhiali. Posso vederti alla perfezione anche senza gli occhiali.

— Bene. Ne sono contenta — disse Candice, con insensibilità felina nei riguardi delle cose umane. — Domani ti telefono. Non preoccuparti.

— Oh, no — borbottò Vergil, sfregandosi le tempie con la punta delle dita.

Lei uscì, chiudendo la porta senza rumore.

Vergil girò lo sguardo per la camera.

Ogni cosa era meravigliosamente a fuoco. Non aveva mai visto con tale chiarezza da quando, a sette anni, il morbillo gli aveva causato l’insorgere di una miopia progressiva.

Quello era il primo miglioramento fisico che senza ombra di dubbio non poteva attribuire all’influenza positiva di Candice.

— Profumo… — mormorò, sbattendo le palpebre verso la finestra.

VI

A Vergil sembrava di aver trascorso settimane in uffici identici a quello: pareti dal lindo colore pastello, tavolo da lavoro in acciaio grigio, cestelli paralleli di documenti «evasi-da-evadere», un uomo o una donna che con pacata efficienza facevano domande dai risvolti psicologici e vagliavano le risposte. Stavolta si trattava di una donna, nitida e ben vestita, con un volto amichevole e paziente. Sulla scrivania davanti a lei c’erano i risultati di un test attitudinale e i suoi documenti di lavoro. Vergil sapeva da tempo come rispondere a quei test: quando l’esaminatore chiedeva di disegnare una scenetta evitare di eccedere nelle linee curve, evitare in modo assoluto gli oggetti acuminati o spigolosi, non disegnare gli occhi, mettere in risalto il cibo o la bellezza femminile. Indicare i propri obiettivi in termini brevi e pratici, ma con un filo di ambizione. Esibire immaginazione, ma non una fantasia sfrenata. La donna annuì fissando le carte e alzò gli occhi su di lui.