Si fermò al Guinevere’s Pizza Parlor, e si costrinse a ordinare una pizza coi funghi, insalata e Coca Cola. Mentre ne aspettava l’arrivo, seduto in uno dei separé pseudo-medievali, si chiese oziosamente se i Laboratori Livermore avessero impianti che lui potesse utilizzare. Chi era più vicino al Dottor Stranamore: i fabbricanti di armi o il buon vecchio Vergil I. Ulam?
La pizza arrivò, e i suoi occhi vagarono sull’abbondante condimento di cui era coperta. — Una volta questa roba ti piaceva — si disse, sottovoce. Spilluzzicò appena la pizza e finì l’insalata. Lasciando sul tavolo metà del cibo ordinato si pulì la bocca, sorrise alla ragazza dietro il registratore di cassa e risalì in macchina.
Vergil non era mai troppo impaziente di rivedere sua madre. In un certo modo, imprecisabile e irritante, aveva bisogno di quelle visite saltuarie, ma non ne godeva molto.
April Ulam abitava in una secolare ma ben tenuta casa a due piani, in fondo alla First Street. L’edificio era dipinto in verde scuro e inalberava un tetto a mansarda. Due piccoli spazi coltivabili cintati da una cancellata fiancheggiavano gli scalini dell’ingresso, uno tenuto a giardino e l’altro a orto. La veranda era interamente schermata, con una porta a vetri montata su cardini cigolanti e fornita di una chiusura a molla ancor più cigolante. L’ingresso principale era un’austera porta di quercia sulla facciata, sormontata da una finestrella semicircolare, con un batacchio a forma di testa di leone.
Nessuna di quelle antiquate comodità stonava in una vecchia casa di una cittadina della California. Un colpo del batacchio bastò per far apparire sulla soglia sua madre, una donna svelta e snella dai capelli neri appena ingrigiti alle tempie, che quel giorno indossava un abito di seta color lavanda, a fiori, e due scarpette dorate a tacco alto. Salutò Vergil con un abbraccio intiepidito da una naturale riservatezza, e poi lo condusse all’interno stringendogli una mano con le sue dita fredde e sottili.
Nel soggiorno la donna sedette su una poltrona rivestita di velluto argenteo, allargando la leggera gonna floreale attorno a sé. Il locale si adattava bene al resto della casa, poiché era stato ammobiliato da una donna anziana (l’inquilina precedente) con articoli che sembravano messi insieme durante una vita lunga e piuttosto interessante. A lato della poltrona c’era un divano rigonfio, con un’imbottitura a fiorellini blu, e di fronte un tavolino d’ottone sul cui piano erano incisi in cerchi concentrici alcuni proverbi arabi. In tre degli angoli c’erano lampade in stile Tiffany, mentre nel quarto campeggiava una statua cinese Kwan-Yin scolpita in un tronco di tek alto due metri. Suo padre — a cui nelle conversazioni ci si riferiva solo come «Frank» — l’aveva portato da un viaggio a Taiwan, e Vergil, che all’epoca aveva tre anni, ne era rimasto spaventato a morte.
Frank li aveva abbandonati tutti e due nel Texas, quando Vergil aveva dieci anni. In seguito s’erano trasferiti in California. Sua madre non s’era risposata, dichiarando che preferiva essere libera. Vergil non era neppure sicuro che lei e suo padre avessero divorziato. Lo ricordava come un uomo scuro e magro, dal volto duro e dalla voce secca, poco intelligente e intollerante, fornito di una risata tonante con cui sottolineava i momenti in cui gli altri erano ansiosi o indispettiti. Neppure da adulto era mai riuscito a immaginare sua madre e suo padre a letto insieme, e non capiva come avessero potuto far vita comune per undici anni. Non aveva mai sentito la mancanza di Frank, se non in via puramente speculativa: la mancanza di un padre, dell’immaginaria condizione di avere un padre con cui parlare, da aiutare nei lavoretti, alla cui saggezza appoggiarsi nei suoi crucci di bambino. Ciò di cui aveva sempre sentito la mancanza era un padre di quello stampo.
— E così sei disoccupato — disse April, studiando il figlio con l’espressione che dedicava alle seccature di media entità.Vergil non aveva detto una parola del suo licenziamento, e non le chiese neppure come ne fosse a conoscenza. April Ulam aveva sempre avuto una mente acuta e un intuito che le consentiva di leggere molte cose sulla faccia di suo figlio, specialmente il particolare genere di guaio in cui riusciva a cacciarsi dopo il precedente.
Annuì. — Da cinque settimane.
— Qualche prospettiva?
— Nessuna che io possa vedere.
— Una volta non eri così pessimista sul tuo valore.
— Una volta non davo tanto valore al mio pessimismo.
Lei sorrise; ora le schermaglie verbali potevano cominciare. Suo figlio era sempre sveglio e spiritoso, quali che fossero gli altri suoi difetti. Non la rattristava saperlo disoccupato: quello era semplicemente il modo in cui andavano le cose, e lui avrebbe bevuto o sarebbe affogato. Nel passato, a dispetto di ogni difficoltà, aveva visto suo figlio restare sempre a galla, magari sputacchiando acqua e con goffe bracciate, ma non era andato mai sotto.
Non gli era mai capitato di doverle chiedere un po’ di soldi da quando era andato via di casa, dieci anni prima.
— Dunque sei venuto a vedere come se la cava la tua vecchia mamma.
— Come se la cava l’anulare della mia vecchia mamma?
— Libero, come al solito — disse lei. — Sei proposte di arricchirlo con un cerchietto nell’ultimo mese. È terribile diventare vecchi e non riuscire ad accorgersene, Verge.
Vergil ridacchiò e scosse il capo, sapendo che lei si aspettava proprio questo. — Qualche prospettiva?
Lei assunse un’aria ironica. — Neppure vaga. Nessuno può sostituire Frank… grazie al cielo.
— Mi hanno dato il benservito perché facevo esperimenti miei personali — le disse. Lei annuì e chiese se voleva il tè, vino o una birra. — Una birra, grazie — rispose.
Lei indicò la cucina. — Il frigorifero è al solito posto.
Vergil trovò una lattina di Dos Equis, asciugò il velo d’umidità con una manica e tornò in soggiorno. Sedette in una poltrona dallo schienale largo e bevve una lunga sorsata.
— Non apprezzavano le tue brillanti capacità? Scosse il capo. — Nessuno mi capisce, mamma.
Lei si volse alla finestra e fece un sospiro. — Neppure io. Ti aspetti di trovare un lavoro entro breve tempo?
— Questo me l’hai già domandato.
— Pensavo che chiedendotelo in modo diverso forse avresti trovato una risposta diversa.
— La risposta sarebbe la stessa anche se me lo chiedessi in Swahili. Non ne posso più di lavorare per qualcun altro.
— Il mio triste e incompreso figliolo.
— Mamma! — sospirò lui, vagamente irritato.
— Di cosa ti stavi occupando?
Le fece un breve resoconto dell’accaduto, del quale lei comprese poco salvo i punti essenziali. — Volevi imbastire un affare alle loro spalle, allora.
Lui annuì. — Se avessi potuto disporre di un altro mese, e se Bernard avesse visto… tutto sarebbe andato liscio come l’olio. — Spesso era evasivo con sua madre. Era imperturbabile, difficile da trattare e ancor più difficile da prendere in giro.
— E ora non saresti qui a far visita alla tua vecchia e stanca madre.
— Probabilmente no. — Vergil scrollò le spalle. — Inoltre c’è una ragazza. Voglio dire una donna.
— Se lascia che tu la chiami ragazza, non è una donna.
— È piuttosto indipendente. — Per un po’ le parlò di Candice, del suo iniziale anticonformismo e del suo graduale aderire a schemi più domestici. — Ormai mi sto abituando ad averla attorno. Cioè, non stiamo convivendo. Siamo in uno stadio in cui cerchiamo di scoprire se la cosa potrebbe funzionare. E io ho un’esperienza insuperabile come animale domestico. — April annuì e gli chiese di portarle una birra. Lui trovò una bottiglia ancora chiusa di Anchor Steam.