— Le mie unghie non sono abbastanza dure — disse lei.
— Oh! — Vergil tornò in cucina e la stappò.
— Dunque. Cosa ti aspetti che faccia per te un barone della chirurgia cerebrale come Bernard?
— Non si occupa di chirurgia cerebrale. Da anni s’interessa alla IA.
— IA?
— Intelligenza artificiale.
— Ah! — Lei ebbe un radioso sorriso di comprensione. — Sei disoccupato — riassunse, — forse innamorato, senza prospettive economiche. Riscalda fino in fondo il cuore della tua genitrice: c’è qualcos’altro che non mi hai detto?
— Sto sperimentando su me stesso, credo.
April spalancò gli occhi. — E come?
— Be’, quelle cellule che ho mutato. Per portarmele via ho dovuto iniettarle nel mio corpo. E da allora non ho potuto mettere piede in nessun laboratorio adatto. Così non le ho ancora recuperate.
— Recuperate?
— Separate dalle altre. Ce ne sono miliardi, mamma.
— Se queste cellule sono tue, perché te ne preoccupi?
— Non noti nulla di cambiato?
Lo scrutò un poco. — Non sei più così pallido, e ho visto che ora porti le lenti a contatto.
— Non ho nessuna lente a contatto.
— Allora è segno che hai smesso con quella tua insana abitudine di leggere al buio. — Scosse la testa. — Non ho mai capito la passione che ti spinge a maneggiare provette pieni di microbi e sostanze disgustose.
Vergil ebbe un sorriso incredulo. — Mi sbalordisci — disse. — E se non riesci a vedere quanto sia importante, allora…
— Non fare commenti screanzati sulla mia cecità mentale. Può darsi che io abbia dei pregiudizi, ma non intendo barattarli con altri ancora peggiori. Non quando vedo il mondo andare dove sta andando oggi a causa di gente con le tue stesse inclinazioni intellettuali. Gente che nelle loro fabbriche e nei laboratori ogni giorno fa un passo avanti verso il Giorno del Giudizio…
— Non condannare tutti gli scienziati basandoti su di me, mamma. Io non sono un tipico esponente della categoria. Sono un po’ più… — Lasciò a metà la frase e sogghignò. Lei di rimando inarcò un sopracciglio, nell’espressione che Vergil non era mai riuscito a decifrare.
— Un po’ più matto — gli disse.
— Non ortodosso — la corresse Vergil.
— Non capisco dove vuoi arrivare, Vergil. Che razza di cellule sono quelle? È roba che hai estratto dal tuo sangue per lavorarci sopra, hai detto. E allora?
— Possono pensare, mamma.
Sempre imperturbabile, lei non mostrò alcuna reazione. — Insieme… voglio dire tutte loro, o ciascuna per conto suo?
— Ciascuna per conto suo. Anche se negli ultimi esperimenti tendevano a raggrupparsi insieme.
— E sono amichevoli?
Vergil alzò al soffitto uno sguardo esasperato. — Sono dei linfociti, mamma. Non vivono certo nel nostro stesso mondo. Non possono essere ostili o amichevoli nel senso che diamo a queste parole. Per loro tutto è una reazione chimica.
— Se possono pensare vuol dire che sentono qualcosa, a meno che la mia esperienza di vita non sia balorda. O a meno che non siano come Frank. Naturalmente lui non era considerato granché, perciò il paragone non è esatto.
— Non ho mai avuto il tempo di scoprire a chi o cosa somiglino, né se riescano a ragionare secondo… quello che è il loro potenziale.
— Qual è il loro potenziale?
— Sei certa che capiresti una cosa simile?
— Ho l’aria di una che questi argomenti non li capisce affatto?
— Sì. O almeno ho i miei dubbi. Comunque non so quale sia il loro potenziale. È enorme, direi.
— Verge, c’è sempre un metodo nella tua follia. Cosa conti di guadagnare da questa faccenda?
La domanda lo bloccò. Non era mai riuscito a comunicare a quel livello — il livello delle ambizioni e degli scopi — con sua madre. Lei non capiva la sua necessità di portare a termine qualcosa di valido. Per lei ambizioni e scopi significavano non far ringhiare i vicini di casa troppo spesso. — Non lo so. Forse niente. Lasciamo perdere.
— Lascerò perdere. Dove andiamo a cena, stasera?
— Mangiamo un boccone al Moroccan.
— Mentre fanno la danza del ventre. Certo.
Di tutte le cose che non capiva di April, il culmine era rappresentato dalla camera da letto della sua infanzia. Coi giocattoli, il letto, i mobili, i poster alle pareti, la stanza era conservata non com’era quando lui se n’era andato, ma com’era stata quando lui aveva dodici anni. I libri letti a quell’età erano stati tolti dalle scatole in solaio, e allineati sul piccolo scaffale che un tempo era servito per i suoi libri scolastici. Quaderni, romanzi di fantascienza e fumetti convivevano ora coi pochi testi scientifici e di elettronica rimasti in casa.
Manifesti cinematografici — ormai già con un certo valore d’antiquariato — mostravano Robbie il Robot con sottobraccio una Anne Frances di dimensioni molto ingrandite nello scenario irreale di un pianeta alieno; Cristopher Lee con occhi arrossati e sogghignanti canini acuminati; il volto teso e stupefatto di Keir Dullea all’interno del suo elmetto spaziale.
A diciannove anni aveva staccato via tutti quei poster, arrotolandoli sul fondo di un baule. April li aveva tirati fuori dopo che lui era partito per il college.
Aveva anche resuscitato il suo scendiletto coi cacciatori e i cani. Il letto stesso aveva la familiarità delle cose lasciate nel dimenticatoio e lo seduceva col sapore di una fanciullezza che non era certo d’aver mai avuto veramente.
Ricordava gli anni della sua prima adolescenza come un’epoca di continue paure e angosce. Paure d’essere una specie di anormale, e d’essere stato in qualche modo responsabile della fuga di suo padre; angoscia per l’obbligo di doversi misurare con gli altri a scuola. E, misti a quei timori, momenti di esaltazione. L’euforia e la meraviglia che aveva provato nell’arrotolare una striscia di carta, unendone le estremità a formare il suo primo nastro di Moebius; il suo formicaio nella cassetta di vetro, le eliche a moto perpetuo mosse dal calore; il giorno in cui aveva trovato tutti i fascicoli degli ultimi dieci anni di Scientific Americans accanto a un bidone di rifiuti in una strada dietro casa sua.
Nella penombra della stanza, già mezzo addormentato, sentì una fitta alla colonna vertebrale. Si massaggiò la schiena distrattamente, poi con un’imprecazione si tirò a sedere sul letto e continuò a massaggiarsi con ambo le mani attraverso il pigiama, dall’alto in basso, nel tentativo di lenire il dolore.
Si portò le dita alla faccia e la tastò. La sentiva del tutto sconosciuta, la faccia di qualcun altro: zigomi estranei, guance misteriose, naso e labbra troppo sporgenti. Ma quando provò con l’altra mano la sentì normale. Unì le dita di entrambe le mani. La sensazione aveva qualcosa di sbagliato. Una mano era molto più sensibile del solito, l’altra quasi anestetizzata.
Col fiato mozzo e accelerato Vergil scese dal letto, attraversò il pianerottolo in cima alle scale e accese la luce nel bagno. Un dolore insopportabile gli attanagliava il torace. Dai piedi alle ginocchia gli correvano fremiti simili a miriadi di morsi di formiche. Non s’era mai sentito così male da quando aveva avuto la varicella, a dieci anni, un mese prima che suo padre se ne andasse. Tremante e quasi incapace di pensare si strappò via di dosso il pigiama e aprì la doccia, sperando di trovare sollievo sotto il getto d’acqua fredda.
La vecchia doccia sputacchiava stanchi rivoli d’acqua che gli scendevano lungo la testa e il collo, le spalle e la schiena, suddividendosi in filamenti giù per l’addome e le gambe. Entrambe le mani era adesso deliziosamente, dolorosamente sensibili, e l’acqua svegliava in esse centinaia di punture d’ago, calde e fredde, roventi e gelide. Allargò le braccia in fuori e gli parve di afferrare l’aria stessa come un oggetto solido pieno di protuberanze.