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Per quindici minuti rimase sotto la doccia, ansimando di sollievo mentre il dolore calava, sfregandosi le zone ipersensibili della pelle coi polsi e il dorso delle mani fino a lasciarsi chiazze di forte rossore. Le mani cominciarono a formicolargli, poi quella sensazione si smorzò nel pulsare del sangue che tornava a circolare normalmente.

Chiuse il rubinetto e si asciugò, quindi si appoggiò al davanzale della finestra, nudo, lasciandosi investire dalla corrente d’aria fresca e ascoltando il frinire dei grilli. — Oh, Cristo! — sussurrò con enfasi. Si girò a esaminarsi nello specchio del bagno. Sul petto aveva numerose chiazze rosse lasciate dalla violenza con cui s’era grattato. Da sopra una spalla si osservò la schiena.

Da una scapola all’altra in un intreccio che gli scendeva lungo la colonna vertebrale vide una quantità di strisce pallide simili a una mappa stradale, proprio sotto la superficie dell’epidermide. Intanto che cercava di esaminarle meglio svanirono lentamente finché, confuso, fu costretto a chiedersi se le avesse viste davvero.

Col cuore che continuava a pulsargli forte Vergil sedette sulla tazza del gabinetto e appoggiò il mento sulle mani, fissandosi i piedi scalzi. Adesso che riusciva a pensare si sentiva spaventato.

Riuscì ad emettere una risata rauca, amara.

— Hai messo quei pargoletti al lavoro, mh? — chiese a se stesso in un sussurro.

— Vergil, ti senti bene? — chiese sua madre dall’altra parte della porta del bagno.

— Sì, sto bene — rispose lui. Bene e sempre meglio, ogni giorno.

— Non capirò mai gli uomini finché avrò vita e respiro — disse sua madre, versandosi un’altra tazza di caffè nero. — Sempre ad almanaccare qualcosa, sempre a cacciarsi nei guai.

— Io non sono nei guai, mamma. — Quelle parole non suonarono convincenti neppure a lui.

— No?

Scrollò le spalle. — Godo di buona salute, posso permettermi di stare alcuni mesi senza lavoro… e qualcosa dovrà pur succedere.

— Finora non ne hai neppure la speranza.

Questo era abbastanza vero. — Devo superare un po’ di depressione — disse, ed era un’aperta menzogna.

— Balle — replicò April. — Tu non sei mai stato depresso in vita tua. Non sai neppure cosa significa. Dovresti provare a essere una donna per qualche anno, e poi me lo sapresti dire.

Il sole mattutino indorava le sottili tende della finestra e riempiva la cucina di un piacevole tepore. — Qualche volta ti comporti come se io fosse un muro di mattoni — brontolò Vergil.

— Qualche volta lo sei. Santo cielo, Verge, sei mio figlio. Ti ho dato io la vita (penso che si possa sorvolare sul contributo di Frank) e ti ho allevato fino all’età di ventidue anni. Ma non sei mai cresciuto, almeno per quel che riguarda la tua sensibilità emotiva. Sei un ragazzo brillante, però non sei del tutto completo.

— E tu — sogghignò lui, — sei un pozzo di saggezza e di comprensione.

— Non punzecchiare chi è più anziano di te, Vergil. Io ti capisco e ti sono accanto più di quanto meriti. Ora sei in un grosso guaio, non è vero? Questo esperimento.

— Vorrei che tu non battessi su questo tasto, sul fatto che io sono lo scienziato e che mi sono iniettato qualcosa e così via… — Chiuse la bocca con una smorfia e intrecciò le braccia sul petto. Tutto cominciava ad apparirgli più spiacevole che mai. I linfociti che s’era iniettato erano senza dubbio ormai morti o decrepiti. Nelle provette avevano subito profonde mutazioni, probabilmente avevano acquisito un’incompetibilità con gli altri anticorpi e già da qualche settimana erano stati attaccati e divorati dai loro immutati ex fratelli. E ogni altra supposizione, semplicemente, non era suffragata da prove. La notte prima lui non aveva avuto altro che una complessa reazione allergica. Perché doveva mettersi a discutere proprio con sua madre la possibilità che…

— Verge?

— È stato bello vederti, April, ma penso che adesso farei meglio ad andare.

— Quanto tempo ti resta?

Alzandosi lui la fissò, scosso. — Non sto morendo, mamma.

— Per tutta la vita mio figlio ha lavorato per giungere al suo momento supremo. Ho la sensazione che sia arrivato, Verge.

— Queste sono sciocchezze, pura follia.

— Tu non hai fatto altro che dirmi cose folli, figliolo. Io non sono un genio, ma neppure una stupida. Hai affermato d’aver creato dei batteri intelligenti, e allora io ti dico questo… chiunque abbia disinfettato un gabinetto o pulito un secchio della spazzatura può rabbrividire all’idea di microbi che pensano. Cosa succederebbe se volessero combatterci, Verge? Rispondi questo alla tua vecchia mamma.

Non c’era nessuna risposta. Vergil non era neanche certo che il soggetto di quella discussione fosse in vita: tutto gli sembrava insensato. Ma avvertì una contrazione alla bocca dello stomaco.

Era già passato attraverso quel rituale, mettendosi nei guai e poi facendo visita a sua madre, a disagio e incerto, senza sapere neanche quale fosse precisamente il guaio. Con immancabile regolarità lei aveva sempre osservato la cosa da un altro punto di vista e identificato il suo problema, presentandoglielo in modo da farlo divenire inevitabile. Questo non era un servizio che riusciva a fargliela amare di più, ma la rendeva preziosa per lui.

Si fermò ad accarezzarle un braccio. Lei si volse e gli prese la mano fra le sue. — Vai via adesso?

— Sì.

— Quanto tempo ci resta, Vergil?

— Cosa? — Non capì cosa volesse dire realmente, ma d’un tratto gli occhi gli si riempirono di lacrime e fu scosso da un tremito.

— Ritorna da me, se puoi — disse lei.

Terrorizzato lui raccolse la valigetta, preparata la sera prima, corse giù per gli scalini fino alla Volvo, spalancò il baule e ve la gettò dentro. Aggirando l’auto batté malamente un ginocchio nel paraurti. La fitta di dolore gli salì lungo la gamba, poi rapidamente svanì. Sedette al volante e avviò il motore.

Sua madre era in piedi sulla porta della veranda, la gonna di seta che fluttuava nella lieve brezza mattutina, e dopo aver ingranato la marcia Vergil le fece un cenno con la mano. Normalità, pensò. Saluti tua madre. Parti.

Parti, sapendo che tuo padre non è mai esistito, e che tua madre è una strega. E questo cos’ha fatto di te?

Scosse il capo finché la vista non cominciò a confonderglisi, riuscendo in qualche modo a tenere l’auto in linea retta lungo la strada.

Una sottile cresta bianca si stagliava sul dorso della sua mano sinistra, come una cordicella appiccicata all’epidermide con del muco.

VIII

Un insolito temporale estivo aveva lasciato il cielo striato di nuvole, l’aria fresca, e la finestra della camera da letto dell’appartamento rigata di gocce d’acqua. La risacca del mare si udiva anche da quattro isolati di distanza: un mormorio intercalato dallo scrosciare dei cavalloni. Vergil sedeva davanti al suo computer, il palmo di una mano poggiato sul bordo della tastiera, le dita chiuse. Sul VDT una molecola di DNA roteava e si evolveva, circondata da una nebbia proteica. Piccoli lampi sulla struttura a doppia elica di zuccheri e fosfati indicavano le rapidissime intrusioni degli enzimi, che si disseminavano nei punti in cui la molecola codificava con essi. Una colonna di cifre scorreva lungo il bordo inferiore dello schermo. Gli occhi di lui le fissavano senza troppa attenzione.

Avrebbe dovuto parlare al più presto con qualcuno. Qualcuno che non fosse sua madre, e certo non Candice. La ragazza s’era trasferita da lui una settimana dopo il suo ritorno da Livermore, e ora si incaricava dei lavori domestici e di preparargli i pasti con ferma decisione.