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A volte uscivano a far compere insieme, cosa che li divertiva. A Candice piaceva aiutare Vergil nella scelta dei vestiti più alla moda, e lui la lasciava fare, anche sapendo che la cosa intaccava il suo già scarso conto in banca.

Quando la ragazza gli faceva domande su cose che a lei non piacevano, i suoi silenzi si facevano sempre più prolungati. Si meravigliava che lui insistesse per fare all’amore al buio.

Suggeriva che andassero alla spiaggia, ma Vergil cambiava discorso.

Si preoccupava per tutto il tempo che lui trascorreva sotto le nuove lampade che aveva comprato.

— Verge? — Candice apparve sulla porta della camera da letto, vestita con un abito aderente ricamato di rose.

— Non chiamarmi così. È già abbastanza che lo faccia mia madre.

— Scusa. Abbiamo deciso di andare a cavalcare al parco degli animali. Ricordi?

Vergil si poggiò un dito sui denti e mordicchiò l’unghia. Parve non averla affatto udita.

— Vergil?

— Non mi sento molto bene.

— Non esci mai. Ecco perché.

— In questo momento mi sento bene — disse lui, girando la sedia. La fissò, senza offrirle una spiegazione a quella frase.

— Be’, non ti capisco.

Le indicò lo schermo. — Non hai mai lasciato che te lo spiegassi.

— Perché ti arrabbi quando io non capisco. — Candice s’imbronciò.

— È più di quanto io abbia mai creduto possibile.

— Che cosa, Vergil?

— Le concatenazioni. Le combinazioni. La forza.

— Per favore, sii chiaro.

— Sono in trappola. Sedotto, ma non abbandonato.

— Io non ti ho esattamente sedotto…

— Non tu, dolcissima — disse distrattamente lui. — Non tu.

Candice si accostò al tavolo cautamente, quasi che lo schermo potesse mordere. I suoi occhi erano un po’ persi nel vuoto e si mordicchiava il labbro inferiore. — Tesoro…

Lui stava annotando le cifre che apparivano sul VDT.

— Vergil.

— Mmh?

— Hai fatto qualcosa sul lavoro? Voglio dire prima che tu lo lasciassi, prima che ci incontrassimo.

Lui rialzò il capo, girandosi a fissarla dolcemente.

— Ad esempio coi computer? Ti è preso un attacco di follia e hai spremuto i loro computer?

— No — ghignò lui. — Non ho spremuto niente. Ho spremuto un po’ loro, forse, ma niente che possano mai scoprire.

— Perché ho conosciuto un tipo, una volta. Aveva fatto qualcosa di illegale e cominciò a comportarsi stranamente. Non usciva di casa e non parlava molto. Proprio come te.

— E che aveva fatto? — chiese Vergil, seguitando ad annotare cifre.

— Aveva rapinato una banca.

La sua penna s’immobilizzò. Sollevò gli occhi. Candice stava piangendo.

— Io gli volevo bene e quando l’ho scoperto ho dovuto lasciarlo — disse la ragazza. — È che non posso vivere con uno che fa queste cose.

— Non preoccuparti.

— Ero già sul punto di lasciarti, poche settimane fa — continuò lei. — Pensavo che quello che potevamo fare insieme, tu e io, lo avevamo già fatto, e che non c’era altro. Ma questo era idiota. Non avevo mai incontrato uno come te. Tu eri… pazzo. Pazzo simpatico, non un pazzo con la testa cattiva come altri che ci sono in giro. E ho pensato che se avessimo potuto capirci veramente questo sarebbe stato meraviglioso. Ti sono stata ad ascoltare quando mi spiegavi qualcosa, perché forse avresti potuto insegnarmi un po’ di biologia e di elettronica. — Accennò allo schermo. — Potrei cercare di ascoltarti. Mi piacerebbe, sul serio.

La bocca di Vergil si aprì lentamente. La richiuse di colpo e fissò lo schermo, sbattendo le palpebre più volte.

— Ho capito che ti amavo. Quando sei andato a casa di tua madre. Non è strano?

— Candice…

— E se tu avessi fatto qualcosa di davvero brutto questo ferirebbe me adesso, non te. — Si fece indietro coi pugni premuti alla base del collo, come se si stesse colpendo da sola, lentamente.

— Io non voglio fare del male a nessuno — disse Vergil.

— Lo so. Non è questa la tua intenzione.

— Potrei spiegarti tutto, se solo sapessi cosa sta succedendo a me. Ma non lo so. Non ho fatto nulla per cui potrebbero mettermi in prigione. Nulla d’illegale. — Salvo falsificazioni di documenti e registrazioni.

— Non puoi farmi credere che niente ti preoccupa. Perché non possiamo parlarne? — Andò a prendere una seggiola pieghevole nel bagno e la aprì, poggiandola a un paio di metri dal tavolo, poi sedette con le ginocchia compostamente unite.

— Ho detto sul serio. Non so cosa sia.

— Hai fatto qualcosa… a te stesso? Voglio dire, hai preso qualche malattia in quel laboratorio, o qualcosa del genere? Ho sentito dire che succede, e che medici e scienziati lavorando con le malattie a volte si contagiano.

— Tu e mia madre — sospirò lui, scuotendo il capo.

— Siamo preoccupate. Pensi che conoscerò tua madre?

— Per qualche tempo probabilmente no.

— Mi spiace che… — Lei si morse le labbra. — Voglio soltanto che esista la sincerità fra noi.

— Questo è giusto — annuì lui.

— Vergil?

— Sì?

— Tu mi ami?

— Sì — disse lui, e fu sorpreso nel sentire che era vero, anche se non aveva distolto gli occhi dallo schermo.

— Perché?

— Perché siamo molto simili — le disse. Non era del tutto certo di come fosse giunto a quella conclusione; forse perché entrambi portavano il marchio dei falliti, o di coloro che comunque non sarebbero mai emersi… il che per Vergil era l’equivalente del fallimento.

— Oh, andiamo!

— Sul serio. Forse tu non te ne sei accorta.

— Io non sono intelligente come te, questo è certo.

È questo ciò che stanno scoprendo quei minuscoli globuli bianchi? La sofferenza legata all’intelligenza, alla necessità di sopravvivere?

— Ti va di fare un giro in macchina oggi? Potremmo fermarci da qualche parte per un picnic. C’è il pollo freddo avanzato da ieri sera.

Lui annotò l’ultima colonna di cifre e capì che ora sapeva quello che aveva desiderato conoscere. I linfociti potevano senz’altro trasmettere la loro struttura biologica ad altri tipi di cellule.

Avevano modo di fare facilmente ciò che aveva sospettato gli stessero facendo.

— Sì — disse. — Un picnic sarebbe favoloso.

— E poi, quando saremo tornati… con le luci accese?

— Perché no? — Lei avrebbe dovuto sapere, prima o poi. E lui avrebbe trovato qualche scusa per spiegare il reticolo di linee bianche. Le creste sporgenti e mucose s’erano appiattite fin da quando aveva cominciato a irradiarle con le lampade UV, un piccolo favore di cui ringraziava Iddio.

— Ti amo — disse lei, immobile sulla sedia e continuando a guardarlo.

Lui registrò nella memoria elettronica la grafica e i calcoli, e spense il computer. — Te ne sono grato — disse sottovoce.

PROFASE

OTTOBRE-DICEMBRE

IX

Irvine, California

Erano trascorsi due anni dall’ultima volta che Edward Milligan aveva visto Vergil. Adesso stentava a riconoscere il giovanotto abbronzato ed elegante che veniva sorridendo verso di lui. Il giorno prima s’erano accordati telefonicamente di pranzare insieme, dandosi appuntamento nel bar degli impiegati al nuovo Mount Freedom Medical Center di Irvine, davanti alla larga porta d’ingresso.