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Chiaramente le farneticazioni di un pazzo, e Hazel non doveva averci fatto caso. Oppure no? Era consuetudine buttar giù sulla lavagna un’idea improvvisa, o un’ispirazione, anche in forma di battuta, e aspettarsi poi che qualche altro genio la correggesse o commentasse. Tuttavia…

Quelle note potevano aver destato la curiosità di qualcuno come Hazel, o di un altro altrettanto intuitivo. Specialmente se il suo lavoro sui MAB stava segnando il passo.

E naturalmente lui non aveva mai pensato di dover essere sospettoso.

I MAB — Biochip per Applicazioni Mediche — stavano per divenire la prima applicazione pratica della rivoluzione introdotta dai biochip, i circuiti di proteine molecolari abbinati all’elettronica e ai siliconi. Per anni i biochip erano stati un campo di speculazione per la letteratura specializzata, ma adesso la Genetron sperava di avere il primo campione funzionante e affidabile, e contava di sottoporlo entro tre mesi ai test della FDA.

Stavano fronteggiando un’agguerrita concorrenza. In quella che cominciava a essere conosciuta come la Enzyme Valley — l’equivalente per i biochip della Silicon Valley — almeno sei compagnie avevano messo in funzione alcuni impianti nella zona di La Jolla. Alcune avevano iniziato come fabbriche di medicinali, contando di mettere a frutto quel che era scaturito da diverse ricerche sul DNA. Messe fuori gioco da industrie maggiori, in possesso dei principali brevetti, avevano poi riconvertito gli impianti per dedicarsi ai biochip. La Genetron era il primo stabilimento che fin dalla costruzione era stato finalizzato specificamente sui biochip.

Vergil prese una cimosa e cancellò lentamente quelle note. Per l’intero corso della sua vita le cose avevano sempre cospirato per frustrarlo. Non di rado s’era dato da solo la zappa sui piedi… era abbastanza onesto da ammetterlo. Ma neppure una volta era stato capace di portare qualcosa a buon fine. Né per quanto riguardava il lavoro, né per la sua vita privata.

Non era mai riuscito a misurare con precisione le conseguenze delle sue azioni.

Tolse quattro quaderni con la costola a spirale dal cassetto della sua scrivania, chiuso a chiave, e li aggiunse al mucchio del materiale da far scomparire, che cresceva sempre più.

Non poteva distruggere tutto quanto, si disse. Le colture di cellule sanguigne bianche, i suoi linfociti speciali, quelli doveva salvarli. Ma dove tenerli? Cos’avrebbe potuto farne, fuori dal laboratorio?

Niente. Non esisteva un posto in cui lavorare con essi. Le apparecchiature che gli servivano erano lì alla Genetron, e per poter disporre di un altro laboratorio gli sarebbero occorsi mesi. Bastava invece un tempo molto inferiore perché il suo lavoro si disintegrasse, letteralmente.

Vergil uscì dalla porta posteriore del laboratorio e attraversò un corridoio interno e una saletta per i lavaggi e la disinfezione. Le incubatrici erano allineate in un locale separato, dietro il laboratorio comune. Lungo le pareti c’erano sette contenitori smaltati, grossi quanto un frigorifero, i cui monitor elettronici rivelavano quale temperatura e quale pressione di CO2 vi fosse in ogni unità. Nell’angolo più lontano, fra incubatrici più antiquate e di modelli diversi (acquistate da un laboratorio che era fallito) ce n’era una in lucido acciaio e plastica bianca, sul cui sportello un cartellino fissato con nastro adesivo avvertiva «Uso Riservato». La aprì e ne tolse una rastrelliera piena di dischetti di colture.

In ogni dischetto i batteri s’erano sviluppati in colonie dall’aspetto insolito: chiazze arancione o verdi, con aree che sembravano una mappa delle strade di Parigi, a incroci radiali, o a pianta reticolare come le strade di Washington. Le linee che si dipartivano dalle chiazze dividevano le colonie in sezioni; ogni sezione aveva il suo aspetto peculiare e — così Vergil supponeva — la sua funzione. Dal momento che ogni batterio di quelle colture aveva potenzialmente le capacità intellettuali di un topo, era abbastanza possibile che ogni coltura si fosse evoluta in una sorta di società primitiva, suddividendosi in unità con funzioni diversificate. Non aveva avuto tempo di studiarci sopra, preso com’era stato dai linfociti-B mutanti.

Pensava a questi ultimi un po’ come a dei suoi figli, tutti quanti. Ed erano diventati qualcosa di eccezionale.

Accese un becco Bunsen, e mentre con un paio di pinze esponeva alla fiamma i dischetti vitrei di E. Coli mutanti si sentì in colpa, e provò un senso di nausea.

Tornò nel suo laboratorio e immerse i dischetti delle colture in un bagno sterilizzante. Quello era il limite: non avrebbe potuto distruggere nient’altro. D’un tratto fu scosso da un fremito d’odio verso Harrison, che andava oltre qualsiasi emozione che avesse mai provato per altri esseri umani. Lacrime di rabbia gli annebbiarono gli occhi.

Aprì il Kelvinator del laboratorio e ne tolse una beuta e un supporto di plastica che conteneva ventidue provette per test. La beuta era piena di un fluido color paglierino, linfociti in siero medio. Aveva costruito un sistema di filtraggio — un’elica con palette di teflon — per ottenere il siero con un minor numero di cellule danneggiate rispetto alla centrifuga tradizionale.

Le provette contenevano una soluzione salina e uno speciale concentrato di siero nutriente, il cui scopo era di mantenere in buone condizioni le cellule quando le esaminava sotto il microscopio.

Stappò la beuta e con cautela versò alcune gocce di fluido a quattro delle provette sul supporto. Poi riappoggiò il contenitore sul banco. L’elica di teflon, nel suo interno, riprese a girare lentamente.

Non appena riscaldati a temperatura ambiente — un procedimento che di solito lui accelerava con un lieve soffio d’aria tiepida — i linfociti delle provette sarebbero tornati in attività, riprendendo il loro sviluppo dopo la pausa a cui la temperatura del frigorifero li aveva costretti.

Avrebbero continuato a imparare, aggiungendo nuovi segmenti alle porzioni modificate del loro DNA. E quando, nel normale corso di crescita cellulare, il nuovo DNA si fosse duplicato nel RNA, e quel RNA avesse esercitato la funzione di modello per la costruzione di aminoacidi, e gli aminoacidi si fossero convertiti in proteine…

Le proteine sarebbero state qualcosa di più che semplici strutture di cellule: altre cellule sarebbero state capaci di «leggerle». O il loro stesso RNA ne sarebbe stato spinto fuori per venir assorbito e «letto» da altre cellule. Oppure — e questa terza ipotesi s’era presentata da sola dopo che Vergil aveva inserito frammenti di DNA batterico in cromosomi di mammiferi — segmenti dello stesso DNA avrebbero potuto essere rimossi e utilizzati di nuovo.

Ogni volta che si soffermava a pensarci nella sua mente s’intrecciavano grovigli di possibilità, migliaia di modi in cui le cellule avrebbero potuto comunicare l’una all’altra e sviluppare il loro intelletto.

L’idea di una cellula intelligente gli appariva ancora meravigliosamente strana. Talora lo costringeva a fermarsi, con gli occhi fissi su un punto vuoto della parete, finché qualcosa non lo scuoteva riportandolo al lavoro che stava facendo.

Accese un microscopio e inserì una pipetta in una delle provette. Con lo strumento graduato assorbì una goccia di liquido, poi la espulse su un vetrino circolare.

Fin dall’inizio Vergil aveva saputo che le sue idee non erano né irrealizzabili né prive di scopo pratico. I primi tre mesi alla Genetron, in cui aveva aiutato a stabilire i rapporti silicone-proteine per i biochip, l’avevano convinto che i progettisti avevano tralasciato qualcosa di molto ovvio ed estremamente interessante.

Perché limitarsi a biochip di silicone e proteine larghi un centesimo di millimetro, quando quasi in ogni cellula vivente esisteva già un computer funzionante e dotato di una vasta memoria? Una cellula di DNA, nei mammiferi, conteneva milioni di geni ciascuno dei quali rappresentava un’informazione. Cos’era la riproduzione, infine, se non un procedimento biologico computerizzato di enorme complessità e affidabilità?