La Genetron non aveva ancora fatto quel semplice passo, e già da tempo Vergil aveva stabilito che questo gli tornava comodo. Avrebbe eseguito il lavóro ordinario, controllato privatamente la possibilità di creare miliardi di computer cellulari funzionanti, e poi avrebbe lasciato la Genetron per mettere in piedi un suo laboratorio, una ditta sua.
Dopo un anno e mezzo di preliminari e di studi aveva cominciato a lavorare di notte al manipolatore genetico. Usando la tastiera di un computer aveva costruito catene logiche di ACTG, le quattro sostanze base, mettendo insieme il progetto di una striscia a doppia elica di DNA-RNA proteico.
Queste prime catene molecolari erano state inserite in batteri E. Coli tramite particelle plasmiche circolari. Gli E. Coli avevano assorbito i plasmidi incorporandoli nel loro DNA originale. Nel duplicarsi i batteri avevano poi rilasciato i plasmidi passandoli alla struttura biologica di altre cellule. Nella fase più cruciale del suo lavoro Vergil aveva usato un virus, il cui apporto d’acido nucleico aveva funzionato da stabilizzatore nel «cappio» che univa il DNA al RNA. Anche i batteri più primitivi avevano impiegato i ribosomi come «codificatori» e «lettori», e l’RNA come una sorta di nastro magnetico. Col «cappio» a posto le cellule sviluppavano una loro memoria, e la capacità di agire secondo un certo programma in base a informazioni assunte indirettamente.
La vera sorpresa l’aveva avuta quando aveva messo alla prova i microbi mutanti. A paragone dell’elettronica costruita dall’uomo, anche la capacità nel computerizzare di un DNA batterico era enorme. Tutto ciò che Vergil doveva fare era di approfittare di quel che era già lì… dandogli una spinta nella direzione giusta.
Più di una volta era stato colpito dalla strana sensazione che il suo lavoro fosse troppo facile, e che lui non era tanto un costruttore quanto un servo della Natura… questo dopo aver visto le molecole cadere al proprio posto spontaneamente, o dopo aver fallito in tal modo che subito vedeva con chiarezza sia l’errore sia il procedimento per correggerlo.
Il brivido più strano e arcano l’aveva provato nel comprendere che stava facendo di più che creare piccoli computer. Una volta dato inizio al procedimento e messe in attività le sequenze di geni che potevano formare e duplicare i segmenti voluti del loro DNA, le cellule cominciavano a funzionare come unità autonome. Cominciavano a «pensare» da sole e sviluppavano un «cervello» più complesso.
I suoi primi E. Coli mutageni avevano mostrato la capacità d’apprendimento di un verme planaria; era riuscito a far loro percorrere semplici labirinti a T, premiandoli con molecole di zucchero. Presto avevano fatto meglio delle planarie: quei batteri — procarioti inferiori — s’erano rilevati superiori agli eucarioti pluricellulari! Dopo pochi mesi sapevano percorrere labirinti molto più complicati e — in rapporto alla loro scala — paragonabili a quelli ideati per i topi.
Rimosse queste sequenze biologiche dagli E. Coli mutageni le aveva inserite in linfociti-B, cellule bianche prelevate dal suo stesso sangue. Aveva rimpiazzato molte serie di introni (sequenze autoreplicanti di ACTG che in apparenza non codificavano per le proteine, e che costituivano una sorprendente percentuale del DNA in ogni cellula eucariotica) con le speciali catene molecolari da lui sviluppate. Negli ultimi sei mesi, usando proteine artificiali e ormoni come metodo di comunicazione, Vergil aveva «addestrato» i linfociti a interagire assai di più l’un l’altro e col loro ambiente esterno: un labirinto di vetro in miniatura molto complesso. I risultati erano stati superiori alle sue aspettative.
I linfociti avevano imparato a percorrere il labirinto e a guadagnarsi il nutrimento-premio con incredibile rapidità.
Attese che i suoi campioni fossero alla temperatura in cui tornavano attivi, poi inserì il vetrino nel pickup del sistema video e accese il primo dei quattro schermi del microscopio allineati sul banco. Su di esso comparvero i linfociti di forma pressappoco circolare nello studio dei quali aveva investito due anni della sua vita.
Erano già indaffarati a trasferirsi l’un l’altro materiale genetico, tramite lunghi tubicini flessuosi simili a pseudopodi o a file di batteri. Nei linfociti erano rimaste alcune caratteristiche sviluppatesi negli E. Coli dei primi esperimenti, per un motivo che lui ancora non aveva chiarito. I linfociti maturi non si riproducevano affatto, ed erano impegnati in una vera e propria orgia di scambi genetici.
Ogni linfocita del campione che stava osservando aveva in potenza le capacità intellettuali di una scimmia Rhesus. Dall’apparente semplicità del loro agire questo certo non risultava ovvio, tuttavia sapevano dimostrarlo nel corso totale della loro vita.
Vergil aveva comunicato con loro a livello di addestramento chimico, li aveva visti crescere e andare nella direzione in cui aveva sperato. E ora la loro breve esistenza giungeva al termine… gli era stato ordinato di assassinarli. Questo sarebbe stato fin troppo facile: se avesse aggiunto detergente nei contenitori le loro membrane si sarebbero dissolte. Alcuni manager dalla vista corta e dall’eccessiva cautela, capaci soltanto di strisciare verso il denaro come planarie in un labirinto, s’erano eletti a loro carnefici.
Mentre guardava i linfociti occupati nelle loro faccende strinse i denti per la rabbia.
Erano belli. Erano i suoi figli, estratti dal suo stesso sangue, nutriti con cura, costruiti secondo logica; con le sue mani aveva iniettato materiale biologico in almeno un migliaio di essi. E ora li vedeva indaffarati a trasformare tutti i loro compagni, l’uno dopo l’altro, senza interruzione…
Come Washoe, la scimpanzé che insegnava ai suoi figli il linguaggio gestuale appreso dai suoi «genitori» umani, loro stavano passandosi la torcia dell’intelligenza allo stato potenziale. Come avrebbe potuto scoprire qualora fossero stati capaci di usare quel potenziale?
Pasteur.
— Pasteur — disse ad alta voce. — Jenner.
Con cura Vergil preparò una siringa. Corrugando le sopracciglia infilò l’ago attraverso il tappo di cotone della prima provetta, immergendolo nella soluzione. Tirò indietro lo stantuffo. Il fluido pastelloso risalì nel cilindro di vetro, cinque, dieci, quindici cc.
Per alcuni minuti tenne la siringa sollevata davanti agli occhi, conscio che stava contemplando un rischio. Fino ad oggi, disse mentalmente alle sue creature, avete avuto la vita facile. La vita di Riley. Adagiati nel vostro siero, carezzandovi l’un l’altro, assorbendo tutti gli ormoni di cui avevate bisogno. Nessuno vi ha imposto di lavorare per vivere. Niente duri test, niente traumi. Nessuna necessità di usare ciò che io vi ho dato.
E cos’era quello che lui stava meditando? Metterli al lavoro nel loro ambiente naturale? Iniettandoli nel proprio corpo li avrebbe portati in salvo fuori dalla Genetron, e in seguito avrebbe potuto ritrovare abbastanza di loro da riprendere gli esperimenti.
— Ehi, Vergil! — Ernesto Villar bussò alla porta e mise dentro la testa. — È arrivato il film sull’arteria del topo. Abbiamo una riunione nella stanza 233. — Tamburellò con le dita sul battente e gli sorrise con calore. — Sei invitato. In veste di critico cinematografico.
Vergil riabbassò la siringa, con lo sguardo fisso nel nulla.
— Vergil?
— Sì, certo, adesso vengo — rispose in tono vago.
— Per carità, non eccitarti tanto! — brontolò Villar, seccato. — Comunque la proiezione della Prima comincia fra poco. — Richiuse la porta. Vergil udì i suoi passi allontanarsi nel corridoio.