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Un rischio, infatti. Inserì di nuovo l’ago nel tappo di cotone, eiettò il siero nella provetta e mise la siringa in una bacinella d’alcool. Assicurò la provetta nel supporto, poi ripose il tutto nel Kelvinator. Fino a quel momento sulla beuta e sul porta-provette non c’era alcuna etichetta, a parte il suo nome. Staccò il cartellino dal portaprovette e lo sostituì con «Campioni di proteine per biochip — scarti di laboratorio 21-32». Sulla beuta incollò un’etichetta plastica «Antigeni di topo — scarti di laboratorio 13-14». Nessuno avrebbe ficcato il naso in un anonimo e non analizzato gruppo di scarti di laboratorio. Gli scarti erano sacri.

Gli occorreva un po’ di tempo per riflettere.

Rothwild e dieci degli elementi chiave del progetto MAB s’erano riuniti nella stanza 233, un laboratorio vuoto utilizzato per le assemblee. Rosso di capelli, piccolo e attivo, Rothwild fungeva da supervisore e da mediatore fra la direzione e i ricercatori. In piedi, a lato dello schermo, esibiva un’elegante giacca color crema e impeccabili pantaloni scuri. Villar offrì a Vergil una sedia di plastica verde-avocado e sedette al suo fianco in fondo al locale, intrecciando le mani dietro la testa.

Rothwild esordì con un’introduzione: — Questa è la conclusione del nostro lavoro sul Modello E-64. Tutti voi avete contribuito… — Lanciò uno sguardo incerto a Vergil. — E ora potete condividerne il… uh, il trionfo. Penso che potremmo senz’altro chiamarlo così.

«L’E-64 è il prototipo di un biochip per endoscopia, dal diametro di tre centesimi di millimetro, proteina su un substrato di silicone, sensibile a quarantasette diversi elementi della circolazione sanguigna. — Si schiarì la gola. Tutti ne erano al corrente, ma quella era un’occasione ufficiale. — Il 10 maggio abbiamo inserito l’E-64 nell’arteria di un topo, richiuso la piccola incisione e lasciato andare il biochip nella corrente sanguigna. Il suo viaggio è durato cinque secondi. Il topo è stato quindi sacrificato per poter recuperare il biochip. Subito dopo la squadra del Dr. Terence ha ricavato le informazioni dal biochip e interpretato i risultati. Trasformando tali risultati tramite uno speciale programma d’immagini computerizzate, ci è stato possibile ottenere un vero e proprio filmato.

Fece un gesto a Ernesto, che premette un pulsante sul proiettore del videoregistratore. Apparve una grafica costruita col computer: il simbolo stilizzato della Genetron, immagini pubblicitarie preliminari, poi uno stacco al buio. Ernesto spense la luce.

Sullo schermo si disegnò un circolo, che s’allargò deformandosi in un ovale irregolare. Entro di esso comparvero altri circoli. — Abbiamo rallentato sei volte la velocità del viaggio — spiegò Rothwild, — e per semplificare le cose abbiamo eliminato le letture della concentrazione di sostanze chimiche nel sangue del topo.

Vergil si sporse in avanti sulla sedia, dimenticando per un momento i suoi guai. Correnti di colore ondeggiarono lungo il fluttuante tunnel di circoli concentrici.

— Sangue che scorre attraverso l’arteria — intervenne Ernesto.

Il viaggio giù per il vaso sanguigno del topo durò trenta secondi. Vergil ebbe per un momento la pelle d’oca: se i suoi linfociti potevano vedere, questo era l’ambiente che avrebbero percepito nel lasciarsi trasportare sull’onda dei battiti cardiaci… un lungo tunnel irregolare, il sangue che fluiva lento, brevi occhiate nelle diramazioni laterali, poi l’arteria si faceva più stretta… i circoli si stringevano sempre mutevoli, improvvisi sbalzi mentre il biochip urtava qua e là nelle pareti… e infine il termine del viaggio quando andava a incastrarsi in fondo a un capillare.

Il filmato diventò un riquadro bianco lampeggiante. La stanza risuonò di voci che si congratulavano a vicenda.

— Adesso — disse Rothwild con un sorriso, e alzò le mani per invocare un po’ d’ordine, — ci sono commenti prima che la registrazione venga mostrata ad Harrison e a Yng?

Vergil si unì alle celebrazioni brindando con un bicchiere di champagne, e tornando nel suo laboratorio si sentì più depresso che mai. Dov’era il suo spirito di collaborazione? Valeva davvero la pena di tenere per sé un progetto così ambizioso come i suoi linfociti? Questa era stata la sua risoluzione… ma a rischio di vedere l’esperimento interrotto, forse perfino annientato.

Mise i quaderni di appunti in una scatola di fogli da fotocopiatrice e la sigillò col nastro adesivo. Sul lato del laboratorio di Hazel trovò una scatoletta vuota con un’etichetta: «Schede. Conservare.» e la staccò. La appiccicò sulla sua scatola e poggiò quest’ultima in territorio «neutrale» accanto a un lavello. Quindi lavò i contenitori in vetro che aveva lasciato lì attorno e mise ordine sui suoi banconi.

Quando fosse venuto il momento dell’ispezione si sarebbe mostrato mite e supplichevole come l’ultimo degli impiegati: Harrison doveva assaporare la soddisfazione della sua vittoria.

E poi, di nascosto — nelle due settimane successive — avrebbe portato all’esterno tutto il materiale che gli serviva. I linfociti avrebbero dovuto attendere l’ultimo turno; per un po’ di tempo poteva tenerli senza danni nel frigorifero, a casa sua. Rubare siero nutritivo per non farli deperire sarebbe stato abbastanza facile, tuttavia questo gli toglieva ogni possibilità di lavorare su di loro.

Più tardi avrebbe studiato come trovare le condizioni per continuare alla meglio i suoi esperimenti.

Harrison comparve sulla soglia del laboratorio.

— Tutto a posto — lo accolse Vergil, doverosamente pentito.

III

Nella settimana seguente lo tennero d’occhio da vicino; poi, spostando l’attenzione sui test conclusivi dei prototipi di MAB, avevano richiamato i loro cani da guardia. Il suo comportamento era stato indenne da pecche.

Adesso poteva compiere gli ultimi passi del suo volontario allontanamento dalla Genetron.

Vergil non era stato il solo a oltrepassare i confini della larghezza di vedute in vigore alla Genetron. Appena un mese prima la direzione, sempre nella persona di Gerald T. Harrison, era scesa in picchiata sul lavoro di Hazel. La ricercatrice aveva sgarrato dai canoni con le sue colture di E. Coli, nel tentativo di dimostrare che il sesso era stato in origine il risultato dell’invasione di una sequenza autonoma di DNA — un parassita chimico chiamato fattore-F — nelle prime forme di vita procariotica. Con questo presupponeva che il sesso non sarebbe stato indispensabile all’evoluzione — almeno non alle donne, che in teoria potevano riprodursi per partenogesi — e che l’uomo avrebbe finito col divenire superfluo.

Aveva messo insieme abbastanza prove perché Vergil, ficcando il naso negli appunti di lei, fosse d’accordo con le sue conclusioni. Ma il lavoro di Hazel non corrispondeva all’etica della Genetron. Era rivoluzionario, possibile fonte di controversie sociali. Harrison aveva pronunciato il verdetto; lei s’era ritirata da quella particolare branca di ricerche.

La Genetron non intendeva farsi pubblicità alimentando controversie scientifiche o sociali. Non ancora. Aveva bisogno di una reputazione senza macchia per il momento in cui avrebbe reso pubblici i suoi prodotti annunciando che stava realizzando MAB efficienti.

Nessuno s’era però preoccupato degli appunti di Hazel. Il fatto che Harrison avesse messo le mani sui suoi dati inseriti nel computer preoccupava Vergil.

Quando fu sicuro che la sorveglianza s’era allentata, cominciò a darsi da fare. Chiese il permesso di usare il computer della compagnia (permesso che gli era stato sospeso fino a nuovo ordine) e per non destare sospetti dichiarò che doveva visionare le strutture tridimensionali delle proteine da lui realizzate. Il permesso gli fu dato, e una sera dopo le otto poté sedersi alla tastiera del terminale nel laboratorio comune.