Vergil era nato troppo presto per essere classificato un bambino prodigio dei computer, ma negli ultimi sette anni aveva alterato la registrazione dei suoi documenti nella memoria elettronica di tre importanti ditte, e li aveva inseriti anche in quella di una famosa università. Questo era servito come supporto per la sua assunzione alla Genetron. Non provava alcun senso di colpa per quelle intrusioni e manipolazioni di dati.
A suo avviso la stima di cui godeva era meritata, e non vedeva perché avrebbe dovuto pentirsi se per ottenerla aveva forzato un po’ le cose. Sapeva d’essere pienamente all’altezza del lavoro che faceva alla Genetron: le false registrazioni introdotte negli archivi dell’università erano soltanto sviolinate per gli orecchi dei capi del personale che si pascevano di titoli e di aggettivi. D’altra parte Vergil era vissuto nella convinzione — fino a due anni prima — che il mondo fosse il suo personale videogame, e che ogni soluzione da lui trovata per sconfiggerlo, inclusa la manomissione di computer, fosse semplicemente consona alla sua natura.
Trovò ridicolmente facile aggirare il codice-chiave di Rinaldi messo a protezione dell’archivio segreto della Genetron. Per lui non c’erano misteri nei numeri di Godei e nelle sequenze di cifre digitali che apparvero sullo schermo. Si destreggiò fra i dati e le informazioni riservate come un pesce nell’acqua.
Trovò il suo fascicolo personale, e inserì un’equazione per chiudere con una chiave elettronica quella sezione della memoria. Poi decise che tanto valeva giocare sul sicuro: c’era sempre la possibilità, per quanto remota, che qualcun altro fosse più ingegnoso di lui. Cancellò completamente i suoi dati dal computer.
Ora il suo programma prevedeva di localizzare i documenti medici degli impiegati. Alterò tutti i termini della sua assicurazione, e i circuiti che avrebbero rivelato l’intrusione. Adesso qualsiasi richiesta d’informazioni sul suo conto dall’esterno lo avrebbe trovato ben coperto, anche dopo il suo allontanamento, e non ci sarebbero mai state domande circa i premi assicurativi che non aveva pagato.
Questo fatto però lo lasciò molto perplesso. La sua salute non era tale da poter fare del tutto a meno dell’assistenza medica.
Per qualche minuto rifletté su eventuali stratagemmi con cui avrebbe potuto mettere nei guai la Genetron, ma decise di rinunciarvi. Non era vendicativo. Spense il terminale con un sospiro e uscì.
Con sua sorpresa trascorse pochissimo tempo — soltanto due giorni — prima che la cancellazione dei dati fosse notata. Rothwild lo bloccò di primo mattino mentre entrava nel vasto atrio, informandolo che gli era precluso l’ingresso al suo laboratorio. Senza mostrasi troppo indignato Vergil replicò che c’era una scatola di oggetti personali che era suo diritto ritirare.
— Benissimo, ma nient’altro. Niente materiale biologico. E mi lascerà esaminare ogni cosa.
Vergil annuì con calma. — Posso sapere che c’è che non va, adesso?
— A esser franco, non l’ho chiesto — disse Rothwild. — E non m’interessa saperlo. Io avevo garantito per lei. E così Thornton. È una grossa delusione per tutti noi.
La mente di Vergil lavorava a ritmo frenetico. Non aveva ancora portato fuori i linfociti; sotto falsa etichetta, nel frigo del laboratorio, gli erano parsi abbastanza al sicuro, e non s’era atteso che le cose precipitassero così in fretta. — Sono licenziato?
— Proprio così. E temo che gli sarà difficile farsi assumere da un altro laboratorio privato. Harrison è furibondo.
Quando entrarono nel laboratorio Hazel era già al lavoro. Vergil prese la scatola che aveva messo nella zona «neutrale» fra i lavandini, coprendo l’etichetta con una mano. Finse di soppesarla, e di nascosto rimosse il nastro adesivo che appallottolò e lasciò cadere in un cestino per i rifiuti. — Un’altra cosa — disse. — Ho alcuni scarti di laboratorio, contrassegnati, di cui bisognerebbe occuparsi in modo opportuno. Cautamente. Radionucleidi.
— Oh, merda! — esclamò Hazel. — Dove?
— Nel frigo. No, non si preccupi… è solo carbonio 14. Posso? — Interrogò Rothwild con lo sguardo. Il sovrintendente gli accennò di poggiare la scatola sul bancone per lasciargliela ispezionare. — Posso? — ripeté Vergil. — Non voglio lasciare attorno niente che sia pericoloso.
Rothwild annuì, riluttante. Vergil si avviò verso il Kelvinator, e come per caso depose la giacca da laboratorio sul banco. La sua mano trovò una scatola di siringhe ipodermiche e ne trafugò una.
Il portaprovette coi linfociti era nello scomparto basso. S’inginocchiò e volgendo le spalle agli altri tolse una provetta, quindi vi inserì la siringa e ne estrasse venti cc. di siero. La siringa era nuova di zecca, e l’ago doveva essere ragionevolmente sterile; non c’era il tempo di una disinfezione con l’alcool, tuttavia era costretto a correre il rischio.
Mentre si puntava l’ago contro una vena all’interno del polso sinistro si domandò, per un attimo, cosa stava facendo e cosa sperava di ricavarne. C’erano scarse possibilità che i linfociti sarebbero sopravvissuti. Non era da scartarsi l’ipotesi che fossero ormai mutati al punto di non potersi adattare al suo sangue, e di morire, oppure di comportarsi come sostanze estranee e venire distrutti dai suoi anticorpi.
Oltre a ciò, la vita media di un linfocita attivo nel corpo umano poteva durare qualche settimana. I «poliziotti» del sangue non avevano un’esistenza facile.
L’ago entrò nella vena. Tutto ciò che sentì fu la lieve puntura, e un vago torpore quando il liquido freddo fluì nel suo sangue. Poi ritrasse l’ago e celò la siringa in fondo al frigorifero. Raccolse il portaprovette, la beuta, e col gomito richiuse lo sportello. Rothwild si tenne nervosamente a distanza mentre Vergil, con un paio di guanti di gomma, vuotava il contenuto delle provette in una bacinella di etanolo. Vi aggiunse anche il siero della beuta. Con un sorrisetto tappò la bacinella, la agitò per mescolare il tutto, quindi la ficcò in un contenitore di sicurezza per i rifiuti. Con un piede spinse il contenitore verso Rothwild. — È tutto suo — borbottò.
L’uomo aveva scartabellato fra i quaderni degli appunti. — Non sono certo che possa portarsi via questa roba — osservò. — Ha impiegato un bel po’ del nostro tempo a lavorarci sopra.
Il sorriso melenso di Vergil restò immutato. — Citerò per danni la Genetron, e alzerò polvere in ogni rivista specializzata su cui potrò scrivere. Sarà una buona pubblicità, proprio mentre cercate d’inserirvi sul mercato, no?
Rothwild lo fissò a occhi socchiusi, e un lieve rossore gli comparve sulle guance e sul collo. — Vada fuori di qui — disse. — Più tardi le sarà spedito il resto della sua roba.
Vergil si prese la scatola. Il freddo che gli aveva intorpidito l’avambraccio s’era dissolto. Rothwild lo scortò giù per le scale e lungo il vialetto fino al cancello del posteggio. Walter ritirò il distintivo di riconoscimento con faccia del tutto inespressiva. Non contento, il sovrintendente gli tenne dietro fino alla macchina.
— Non dimentichi il suo contratto — lo avvertì. — Pensi bene a ciò che può e non può dire.
— Mi sarà permesso dire una cosa, spero — replicò Vergil, sforzandosi di tenere la voce ferma mentre la rabbia saliva in lui.
— Che cosa? — domandò Rothwild.
— Andate a farvi fottere. Tutti quanti.
Sterzando attorno al monticello che sosteneva l’insegna della Genetron Vergil si volse, ripensando a tutto ciò che era accaduto dietro quelle austere mura. Gettò uno sguardo al cubo nero, più oltre, seminascosto da un filare di eucalipti.
Era più che probabile che quella fosse la fine del suo esperimento. Per un poco la tensione e il disgusto gli diedero un senso di nausea. Poi ripensò ai miliardi di linfociti che aveva appena annientato. La sua nausea aumentò al punto che avvertì in gola il sapore acido del succo gastrico.