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— Oh, andrete a farvi fottere, è sicuro — mormorò, — perché tutto quello che tocco io va a farsi fottere.

IV

Gli esseri umani erano un gregge confusionario, decise Vergil, mentre appollaiato su uno sgabello si voltava a guardare i ballerini. Una musica mielata e pulsante accompagnava il lento ruotare della pista da ballo, e il lampeggiare delle luci colorate enfatizzava il sussultare dei corpi ammassati su di essa, maschili e femminili. Lungo tutto il bar uno stupefacente intreccio di lucidi tubi di rame sgocciolava e sputacchiava drink su ordinazione — per lo più vini vendemmiati in vitro — e quarantasette varietà di caffè. Le richieste di caffè erano in aumento; la notte si stava trasformando in mattino, e presto Weary’s avrebbe spento le luci e chiuso i battenti.

Gli ultimi sforzi creativi dei volonterosi danzatori diventavano sempre più ovvii. I loro movimenti avevano perso in fantasia, assumendo un tono quasi disperato. Accanto a Vergil un individuo tozzo in uno spiegazzato abito azzurro stava facendo le sue promesse da marinaio a una brunetta dai lineamenti asiatici che poco prima aveva pianto. Vergil si sentiva distaccato da tutto e da tutti. Non aveva ancora mosso un passo da dove si trovava, ed era entrato da Weary’s alle sette di sera. Del resto, neppure una femmina aveva fatto un passo verso di lui.

Non rappresentava una merce valida. Fermo o in movimento dava l’impressione di non saper dove mettere i piedi… e a parte un paio di viaggi nell’affollata zona dei tavolini e dei divani, non li aveva messi che sulla sbarra di quello sgabello. Negli ultimi anni aveva trascorso tanto di quel tempo in laboratorio che lì dentro riusciva a divertirsi quanto un gatto buttato su una giostra. Non aveva l’aria di un allegrone, e non intendeva spendere un grammo d’energia per attirare l’attenzione altrui.

Grazie al cielo, l’aria condizionata di Weary’s era almeno riuscita a placare il suo raffreddore da fieno.

Aveva trascorso la maggior parte della sera ad osservare la sorprendente varietà — e la sostanziale uniformità — delle tattiche che l’animale maschio metteva in opera verso la femmina. Lui se ne sentiva estraniato, sospeso in una sfera di distacco e di solitudine di cui non desiderava oltrepassare i confini. Dunque perché, chiese a se stesso, per prima cosa era venuto lì da Weary’s? Perché continuava a venire lì? Non aveva mai rimorchiato una donna in quel locale — e in nessun altro locale da ballo o bar — in tutta la sua vita.

— Salve.

Vergil sobbalzò e si volse, spalancando gli occhi.

— Scusami. Non volevo disturbarti.

Lui scosse la testa. La ragazza doveva essere sui ventotto anni: una bionda dalle sfumature dorate, così snella da sembrare sottile, e un volto non eccezionale ma attraente. Gli occhi castani, grandi e innocenti, erano la sua cosa migliore… salvo forse le gambe, si corresse, occhieggiandole d’istinto le caviglie.

— Non vieni qui molto spesso — disse lei. Gettò una rapida occhiata dietro di sé. — Oppure sì? Voglio dire, neppure io ci capito molto, del resto.

Lui si strinse nelle spalle. — Non spesso, già. Non è il caso. La mia percentuale di successi, qui dentro, non è spettacolosa.

La ragazza tornò a guardarlo e sorrise. — Su di te ne so più di quel che pensi — affermò. — Non ho bisogno di leggerti la mano. Sei un uomo abile, per prima cosa.

— Sul serio? — disse lui, sentendosi goffo.

— Abile con le mani, intendo. — Gli sfiorò il dorso di una mano che lui s’era poggiata su un ginocchio. — Hai dita sensibili. Puoi fare molte cose con mani come queste. Ma non hanno tracce di grasso, dunque non puoi essere un meccanico. E cerchi di vestirti bene, ma… — Ebbe una risatina cinguettante e la soffocò con le dita. — Scusa. Comunque ci provi.

Lui abbassò gli occhi sulla sua camicia di cotone, verde e nera, e sui pantaloni neri. Erano abiti nuovi e ben stirati. Cosa ci trovava di criticabile? Forse non le erano piaciute le scarpe bicolori; avevano fatto presto a sformarsi.

— Tu lavori… vediamo. — La ragazza si accarezzò una guancia con aria pensosa. Le sue unghie erano capolavori da manicure di classe, lunghi ovali dai riflessi bronzei. — Sei un cervello.

— Cosa?

— Lavori in uno dei laboratori che ci sono da queste parti. Hai i capelli troppo lunghi per essere uno della Marina, e del resto quelli non frequentano molto Weary’s. Non che io sappia. Lavori in un laboratorio e sei… no, tu non sei felice. Perché mai?

— Perché… — S’interruppe. Confessare che era disoccupato non era buona strategia. Per sei mesi avrebbe avuto diritto all’assegno governativo di disoccupazione; questo e i suoi risparmi avrebbero sopperito per un po’ di tempo alla mancanza di una paga fissa. — Come hai capito che lavoro in un laboratorio?

— Te lo rivelerò. La tasca della tua camicia… — Gliela toccò lievemente con le dita. — Il bordo è segnato dalla traccia della molla delle penne. Come se non facessi altro che levartele di tasca e rimetterle lì. — Sorrise, deliziosamente, e sporse la lingua in modo buffo come se lo avesse colto in fallo.

— Ma non mi dire.

— Sicuro. E porti il fermacravatta. Soltanto gli scienziati portano ancora il fermacravatta, al giorno d’oggi.

— Mi piace — si difese Vergil.

— Oh, anche a me. Il punto a cui voglio arrivare, però, è che non ho mai conosciuto uno scienziato. Voglio dire… intimamente.

Oh, Signore! pensò Vergil. — Che ti piacerebbe fare? — chiese, e immediatamente desiderò rimangiarsi quelle parole.

— Mi piacerebbe conoscerti, se non pensi che io stia andando troppo in fretta — disse lei, ignorando la domanda. — Guarda, il bar chiude fra pochi minuti. Non mi va di bere più niente e sono stanca di sentire musica. E tu?

Il suo nome era Candice Rhine. Ciò che faceva durante il giorno era accettare annunci per il La Jolla Light. Approvò la sua Volvo sportiva rossa e approvò il suo appartamento, un bicamera al terzo piano di un condominio a quattro isolati dalla spiaggia di La Jolla. Vergil l’aveva acquistato sei anni prima — appena uscito dalla scuola di medicina — da un antropologo che era partito per l’Ecuador subito dopo aver terminato uno studio sugli Indios del Sud America.

Candice entrò nell’appartamento come se ci avesse abitato per anni. Depose la blusa scamosciata sul divano e gettò la camicetta sul soprammobile in vetro e cromo al centro del tavolino. Con una risatina divertita sgusciò fuori dalla gonna e appese il reggiseno alla maniglia di una porta. Aveva seni piccoli, ma era così snella che su di lei sembravano voluminosi.

Vergil la guardava fra meravigliato e stupefatto.

— Vieni, scienziato — disse Candice, nuda sulla soglia della camera da letto. — Mi piace camminare sul pelo. — Vergil aveva messo la moquette sul pavimento, intorno al suo largo letto in stile California. Lei si mise in posa, con le mani sui fianchi, la schiena e un piede poggiati allo stipite della porta, poi ruotò sull’altro tallone e scomparve nel buio della stanza.

Vergil non si mosse finché lei non accese la lampada sul comodino da notte. — Lo sapevo! — la sentì esclamare. — Guarda tutti questi libri!

Più tardi, nel buio, Vergil pensò tardivamente ai pericoli del sesso in quel momento. Candice dormiva in silenzio al suo fianco, il sonno dovuto a diversi drink e a quattro riprese di sesso.

Quattro volte.

Non aveva mai fatto l’amore così intensamente. Prima d’addormentarsi lei aveva mormorato che i piloti lo facevano con regolarità, i medici con pazienza, ma soltanto gli scienziati con progressione geometrica.

Circa i pericoli… chiunque poteva vedere — e non solo nei libri di testo — i risultati della promiscuità in un mondo dove la gente viaggiava molto e aveva rapporti sessuali assai facili. Se Candice aveva molti rapporti sessuali (e Vergil era costretto a crederlo, visto che aveva preso l’iniziativa con assoluta disinvoltura) allora era impossibile dire quale specie di microrganismo stava ora accasandosi nel suo sangue.