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1o novembre 1955, Tangeri

Il mese scorso il sultano Mohammed V è stato richiamato dall'esilio in Madagascar dove i francesi lo avevano mandato tre anni fa. Il suo arrivo è previsto entro questo mese. È il principio della fine, anche se nessuno se ne accorgerebbe, vedendo gli espatriati qui a Tangeri che si trastullano mentre Roma brucia; ma che cosa importa a loro? Io ardo per M. che è via da mesi per sistemare la faccenda del divorzio. Saremo tutti consumati dalle fiamme.

12 gennaio 1936, Tangeri

Un altro figlio, che ho deciso di chiamare Javier, un nome che mi è sempre piaciuto e che non ha niente a che vedere con la famiglia. Per la prima volta guardo uno dei miei bambini e provo non tanto uno slancio di amore paterno, quanto un folle sentimento di speranza.

28 giugno 1956, Tangeri

Sono sdraiato sotto la mia zanzariera con Javier sul petto; ha le gambe piegate come quelle di un ranocchio, gli alluci premuti sulla mia pancia. Con una mano gli copro tutta la schiena. Dorme e ogni tanto, senza accorgersene, mi pigia il petto, casomai vi si trovasse un po' di latte. Quanto presto entra la delusione nella nostra vita!

Mentre lavoro è disteso su una coperta e io gli parlo della pittura, delle idee, delle influenze. Lentamente lui unisce mani e piedi come se volesse prendermi in giro con un applauso silenzioso e distratto. Lo guardo e in me si apre una piccola fessura. Il suo corpicino morbido, minuscolo, i suoi grandi occhi scuri, la testa lanuginosa, tutto si unisce e, come se mi fosse scivolato tra le costole, un bisturi si insinua nella fessura e mi spalanca.

XXVII

Domenica 22 aprile 2001, casa di Falcón, calle Bailén, Siviglia

Arrivò per prima, alle undici, la nipote di Encarnación, Juanita. Falcón era ancora intontito da un sonno pesante indotto dalle pillole; l'ultima, presa alle quattro del mattino, lo aveva praticamente sepolto nel cemento.

Dopo la doccia indossò un paio di pantaloni grigi, così larghi in vita che dovette cercare una cintura. Anche la giacca non gli cingeva più bene le spalle. Stava perdendo peso: nello specchio le guance apparivano incavate, gli occhi infossati nelle orbite e cerchiati di scuro. Si stava trasformando nell'immagine che da sempre aveva dei pazzi.

Le scarpe da ginnastica nere di Juanita scricchiolavano sul pavimento della cucina e un fiume di capelli scuri si agitava lungo la sua schiena ogni volta che la ragazza scuoteva la testa. Falcón controllò che il frigorifero fosse ben rifornito di fino e di manzanilla e scese in cantina per prendere il vino rosso da servire con l'agnello arrosto.

La cantina si trovava sul retro della casa, sotto lo studio; era un locale buio che aveva usato anche come camera oscura, ma nel quale non era più entrato da quando Inés se ne era andata. I suoi attrezzi per lo sviluppo delle foto erano ancora là in un angolo, il filo di nylon era ancora teso attraverso la stanza, con le mollette per appendere le stampe ad asciugare. Sentì all'improvviso la mancanza di quell'emozione che provava sempre davanti all'immagine che si andava formando sul foglio bianco immerso nel liquido, al volto che gli veniva incontro. Era quello dunque il segreto chiuso nella sua testa? Immagini che dovevano essere sviluppate, perché i ricordi latenti riprendessero forma e sfondassero il muro della consapevolezza, risolvendo il suo tormento?

La rastrelliera di metallo per le bottiglie di vino era divisa tra vini francesi e spagnoli. Falcón non toccava mai quelli francesi, bottiglie costose comprate da suo padre; ma quel giorno si sentiva in vena di festeggiare. Gli ultimi paragrafi dei diari che aveva letto la notte precedente lo avevano spinto alle lacrime, prima che il sonno giungesse, e sentiva di voler brindare alla generosità del suo defunto genitore. L'intimità che era esistita tra loro aveva trovato una conferma e Javier era disposto a perdonargli la depravazione e l'infedeltà. Scelse qualche bottiglia di Château Duhart-Milon, di Château Giscours, di Montrachet, di Pommard, di Clos-des-Ursules e cominciò a portarle in sala da pranzo, disponendole sul piano della credenza. Risalendo per la seconda volta dalla cantina, in una nicchia sopra la porta, vide un'urna che non aveva mai notato.

Non era più alta di quindici centimetri, troppo piccola per contenere resti umani. Posò le bottiglie, depose l'urna sul tavolo di sviluppo e accese la lampada che lo illuminava. Il tappo era un semplice cono di argilla sigillato con la cera; nessun segno particolare sull'urna di terracotta non smaltata. Falcón ruppe il sigillo e tolse il tappo. Versò una parte del contenuto sul tavolo. Era una sostanza gialliccia e granulosa, con qualche pezzetto più grosso e tagliente. La smosse con il dito: alcuni frammenti erano scuri e all'improvviso quei sedimenti gli apparvero macabri, simili a ossa frantumate. Lasciò tutto sul tavolo, colto da un improvviso moto di repulsione.

Paco e la sua famiglia furono i primi ad arrivare e mentre le donne salivano al piano superiore e i bambini scorrazzavano nella galleria, Paco portò in casa un jamón intero proveniente da Jabugo, nella Sierra de Aracena. Trovarono il sostegno apposito nella credenza e, bloccato il prosciutto, Paco affilò il lungo coltello e cominciò a tagliare fette sottili come fogli di carta del jamón dolce, rosso scuro, mentre Javier versava il fino nei bicchieri.

Juanita dispose sul tavolo apparecchiato nel patio ciotole di olive e altri pinchos ai quali Paco aggiunse un piatto da portata di prosciutto affettato. All'arrivo di Manuela con la sua compagnia, tutti quanti si riunirono nel patio, bevendo fino e gridando ai bambini di smetterla di correre come pazzi. L'unico adulto che non disse a Javier quanto l'avesse trovato dimagrito fu la sorella di Alejandro, lei stessa poco più in carne di una mantide religiosa.

Paco era soddisfattissimo e parlò dei suoi tori, tutti consegnati in perfette condizioni per la corrida del giorno seguente. Il segno dell'incornata era ancora visibile su Biensolo, ma il retinto era molto robusto. L'unico avvertimento che diede a Javier fu che la punta delle corna era rivoltata in su in modo insolito e lo spazio tra di esse molto stretto: ucciderlo sarebbe stato difficile, anche se il toro avesse tenuto la testa molto bassa.

Alle quattro del pomeriggio erano seduti a tavola davanti all'agnello arrosto. Manuela notò subito la qualità del vino e domandò quante altre bottiglie stesse nascondendo il «fratellino». Per distrarre la sua attenzione Javier le parlò dell'urna. La sorella gli chiese di vederla e, quando il pasto fu arrivato alla fine e Paco si fu acceso il suo primo Montecristo, Javier andò a prenderla in cantina. Manuela la riconobbe subito.

«Che strano», disse, «non so come papà abbia perduto i gioielli della mamma e sia riuscito a far arrivare sana e salva questa da Tangeri.»

«Ah, Manuela! Papà non buttava mai via niente», osservò Paco.

«Ma questa è della mamma. Me la ricordo. L'avevo vista per due o tre giorni sulla sua toletta… più o meno un mese prima che morisse. Le avevo chiesto che cosa fosse, perché era diversa da tutte le altre cose che aveva lì, credevo che fosse un unguento di quella donna del Rif, la sua cameriera. Mamá aveva detto che conteneva lo spirito del genio e che non doveva mai essere aperta. Strano, no?»