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«Stava solo scherzando con te, Manuela», disse Paco.

«Vedo che l'hai aperta», osservò Manuela. «Nessun genio?»

«No», rispose Javier, «si direbbero ossa o denti frantumati.»

«Non sembra roba molto spirituale», commentò Paco.

«Macabra più che altro», convenne Javier.

«Avrei detto che, dopo tutte le cose orrende che hai visto, non ti saresti fatto impressionare da un mucchietto di vecchie ossa, fratellino, non tu», osservò Manuela.

«Ma frantumate?» replicò Javier. «Ne ho ricavato l'impressione di qualcosa di violento.»

«Come sai che si tratta di ossa umane? Potrebbero essere di mucca o qualcosa del genere.»

«Ma perché 'lo spirito del genio'?» domandò Javier.

«Lo sapete chi gliel'aveva data quell'urna, no?» intervenne Paco. «È stato papà… tanto tempo fa. In quel periodo c'era qualcosa di strano in casa. Non vi ricordate? Mamá una volta aveva acceso un falò nel patio, tornando da scuola avevamo visto quella macchia nera vicino al fico.»

«Lui era troppo piccolo», disse Manuela, «ma hai ragione, papà le consegnò l'urna il giorno dopo. Un'altra cosa curiosa: quella scultura meravigliosa che le aveva regalato l'anno prima per il suo compleanno… un bel giorno scomparve. La teneva accanto allo specchio, le piaceva moltissimo. Le chiesi dove fosse finita e lei mi disse soltanto: 'Il Signore dà, il Signore toglie'.»

«E più o meno in quel periodo cominciò ad andare a messa tutti i giorni», disse Paco.

«Sì, prima andava solo una volta la settimana», confermò Manuela. «E smise anche di portare gli anelli, aveva tenuto solo quell'agata da poco prezzo che le aveva regalato papà per la sua festa. Quell'anello te lo ricordi, vero, fratellino?»

«No.»

«Papà aveva dato a te il pacchettino da portarle durante la cena di compleanno. La mamma ha scartato il pacchetto e il coperchio della scatola si è aperto di scatto e ti ha colpito sul naso. È uscito un fiore di carta a molla e dentro il fiore c'era l'anello. Una cosa molto romantica. Mamá era commossa, ricordo la sua espressione.»

«Deve aver saputo che le sarebbe accaduto qualcosa», affermò Paco. «Andare a messa tutti i giorni, portare solo quell'anello, regalo di papà. È stato lo stesso per me quando sono stato incornato a La Maestranza.»

«Lo stesso, che cosa?» domandò Javier, affascinato da quei vecchi ricordi, toccandosi perfino il naso per cercare di rammentare il coperchio che lo aveva colpito.

«Sapevo che stava per accadermi qualcosa.»

«E come?» intervenne il suocero di Paco, uno dei grandi scettici della vita.

«Lo sapevo e basta», insistette lui, «sapevo che ero sul punto di un grande evento ed essendo giovane e arrogante pensavo che si sarebbe trattato della fama.»

«Ma che cosa sapevi?»

«Non lo so», rispose Paco, agitando le mani, «era una sensazione, come se tutto si riunisse…»

«Convergesse», lo aiutò Javier.

«I toreri sono sempre stati molto superstiziosi», concluse il suocero.

«Sì, be', quando si rischia la vita… tutto assume un significato», cercò di spiegare Paco. «Le stelle, i pianeti… roba così.»

«Stelle e pianeti che si allineano su di te?» sbuffò il suocero con disprezzo.

«Sto esagerando», si giustificò Paco, «forse era solo un sesto senso, forse è solo in retrospettiva che io attribuisco un significato importante a un fatto che ha rovinato la mia gioventù in una manciata di secondi.»

«Scusami, Paco», disse il suocero, «non volevo sminuire…»

«Ma era proprio per quello che ho voluto fare il torero. Amavo la purezza del pericolo, era come vivere una vita sempre a quel livello di consapevolezza. Solo che ho sbagliato a interpretare i segni. Nessuno avrebbe potuto predire quel disastro, durante tutta la faena il toro non aveva mai colpito a destra, lo ha fatto proprio quando ero sulle corna. A ogni buon conto sono stato fortunato a salvare la pelle. È come diceva la mamma a Manuela: il Signore dà e il Signore toglie. Non c'è una ragione.»

Su questo la riunione si sciolse; Manuela uscì con la sua compagnia, la famiglia di Paco, compresi i suoceri, si ritirò per la siesta e Javier e suo fratello rimasero seduti davanti a una bottiglia di cognac. Paco era quasi ubriaco.

«Forse eri troppo intelligente per fare il torero», suggerì Javier, tornando sull'argomento.

«Sono sempre andato malissimo a scuola.»

«Allora, forse, pensavi troppo per essere un buon torero.»

«Non pensavo mai. Ho cominciato dopo, una volta sfracellata la gamba ho dovuto schiarirmi le idee. Dovevo buttare nella spazzatura tutti quegli articoli e quei filmati dei miei momenti di gloria che non erano mai esistiti e mai sarebbero esistiti in futuro. Mi avevano lasciato completamente svuotato. Avevo incubi tremendi e tutti pensavano che io rivivessi quell'istante terribile, ma, per quanto mi riguardava, era una cosa che apparteneva al passato. I miei incubi riguardavano il futuro.»

Paco si versò altro cognac e fece scivolare la bottiglia verso Javier, che scosse la testa. Paco gli passò il cilindro di un sigaro e Javier glielo rimandò indietro.

«Sempre controllato, eh?» commentò Paco.

«È questo che credi?» Mancò poco che Javier scoppiasse a ridere.

«Oh, sì, niente riesce mai a toccarti, a turbare la tua calma interiore. Non come me. Ero assolutamente sconvolto allora, la gamba in pezzi e nessun futuro. È stato papà a salvarmi, sai. Mi ha installato nella finca, mi ha comprato la mia prima mandria. Mi ha tirato fuori… ha dato una direzione alla mia vita.»

«Be', era un soldato, sapeva capire gli uomini», disse Javier, consapevole di distorcere i fatti in favore di suo padre, a beneficio di Paco.

«Stai ancora leggendo quei diari?»

«Quasi tutte le notti.»

«Hanno cambiato in qualche modo l'idea che ti eri fatto di lui?»

«Be', è assolutamente sincero, sincero in modo terrificante. Lo ammiro per questo, ma le sue rivelazioni…» rispose Javier, scuotendo la testa.

«Del tempo della Legione?» domandò Paco. «Sono stati i più duri, i legionari, lo sai.»

«È stato coinvolto in qualche azione brutale durante la Guerra civile e in Russia, nella Seconda guerra mondiale. Parte della brutalità sperimentata in quegli anni era rimasta in lui anche a Tangeri.»

«Noi non l'abbiamo mai vista», obiettò Paco.

«In qualcuna delle sue operazioni commerciali è stato abbastanza duro e senza scrupoli», disse Javier. «Ha usato le stesse tecniche impiegate durante la guerra… il terrore. E ha smesso solo quando si è dedicato a tempo pieno alla pittura.»

«Credi che la pittura lo abbia aiutato?»

«Penso che abbia trasferito molta violenza nella sua pittura», spiegò Javier. «È famoso per i suoi nudi, ma moltissimi dei suoi lavori astratti sono impregnati di desolazione, di violenza, di tenebra, di decadenza, di depravazione.»

«Depravazione?»

«Leggere quei diari è come lavorare a un'indagine su un delitto. Lentamente, un passo dopo l'altro viene tutto a galla… la vita segreta. La società, e anche noi, vediamo solo ciò che è accettabile, ma io credo che nostro padre non si sia mai liberato della sua brutalità. Questa emergeva in altri modi. Lo sai come faceva lui, che vendeva i quadri e poi correva nello studio a dipingere lo stesso lavoro che aveva appena venduto. Io credo che quella fosse una forma di brutalità. Doveva sempre ridere per ultimo.»

«Lo fai apparire come una persona non esattamente amabile.»

«Amabile? Chi lo è oggigiorno? Siamo tutti complicati e difficili. Solo che papà ha affrontato delle difficoltà particolari in un periodo brutale.»