«Non spiega perché fosse entrato nella Legione?»
«È l'unica cosa di cui non parla. Vi fa riferimento solo alludendo a un certo 'incidente'. E, dato che parla quasi di tutto il resto, deve essere stato terribile. Una cosa che ha cambiato la sua vita e con la quale non è mai venuto a patti.»
«Era solo un ragazzo», disse Paco. «Che cosa diavolo può succederti a sedici anni?»
«Quanto basta.»
Il campanello della porta squillò.
«È Pepe», disse Javier.
Pepe Leal era alto e magro come un chiodo. Sulla soglia si teneva eretto, i piedi uniti, la testa alta, come se fosse costantemente in attesa di qualcosa. Aveva sempre un'espressione seria e indossava giacca e cravatta in tutte le occasioni. Non risultava che avesse mai portato i jeans. Sembrava un ragazzo appena uscito da una scuola privata e non un uomo in procinto di entrare nell'arena e affrontare un toro di cinquecento chili, per ucciderlo con grazia e contegno.
I due uomini si abbracciarono. Javier accompagnò Pepe in sala da pranzo, tenendogli un braccio intorno alle spalle. Lo abbracciò anche Paco. Sedettero a un'estremità della tavola e Javier rifletté che era sempre così con i toreri, sempre separati dalla gente comune, e non perché erano in una forma fisica perfetta, bevevano solo acqua e sedevano a qualche centimetro di distanza dalla tavola. La differenza stava nel fatto che il torero era un uomo che affrontava regolarmente la paura e la superava. Non perché avesse raggiunto uno stato di permanente assenza di paura. Era un essere umano; ogni volta che entrava nella plaza per rischiare la vita, doveva sempre superare una nuova paura.
Javier lo aveva visto terreo e tremante nelle ore che precedevano la corrida, seduto nella sua camera d'albergo, senza pregare, perché non era religioso, senza mai cercare aiuto da qualcuno. Era solo un essere umano pietrificato dalla paura che non riusciva a controllare il proprio terrore. Poi cominciava a vestirsi e aveva inizio il processo. Mentre veniva avvolto lentamente nel suo traje de luces, l'uniforme della sua professione, la paura veniva contenuta, non si spandeva più all'esterno, inondando la stanza come un contagio invisibile. L'«abito di luci» produceva qualcosa in lui, gli ricordava il pomeriggio luminoso in cui aveva colto la sua occasione ed era diventato un torero a pieno titolo; o forse lo racchiudeva semplicemente nella nobiltà della sua professione e chi lo indossava poteva soltanto comportarsi con la dignità richiesta. Tuttavia non lo liberava dalla paura, si limitava a ricacciarla dentro la sua anima. Alcuni toreri non riuscivano mai nemmeno a raggiungere quel livello di contenimento della paura e Javier li aveva visti nella plaza pallidi e sudati, in attesa del loro momento, pregando di riuscire a superarlo.
«Mi sembri in buona forma, Pepe», osservò Paco. «Come ti senti?»
«Come al solito», rispose il ragazzo in tono allegro. «E come stanno i tori?»
«Javier ti ha parlato del retinto… Biensolo?»
Pepe fece segno di sì.
«Se lo batti, te lo prometto, non dovrai mai più stare con le mani in mano. Madrid, Siviglia e Barcellona saranno tue.»
Pepe annuì di nuovo, i nervi troppo scoperti per riuscire a parlare. Paco gli fece un resoconto sugli altri tori, poi, intuendo che Pepe voleva restare solo con Javier, si scusò e si ritirò per la siesta. Pepe si rilassò di circa due millimetri sulla sedia.
«Hai l'aria di lavorare troppo, Javier», disse Pepe.
«Sì, sto perdendo peso.»
«Verrai all'albergo prima della corrida?»
«Cercherò, è naturale, sono sicuro che le indagini potranno fare a meno di me per qualche ora.»
«Tu mi aiuti sempre», disse Pepe.
«Non hai più bisogno di me.»
«Sì, invece. Per me è importante.»
«E come va la paura?»
«Sempre uguale, in questo sono costante, il mio livello è fisso… ma più alto di quasi tutti gli altri.»
«Mi interesserebbe sapere come fai a controllarla», disse Javier, intravedendo all'improvviso un'opportunità.
«Come se dovessi affrontare un uomo armato.»
«Stavo pensando a una forma diversa di paura.»
«È sempre paura, sia che si téma di morire, sia che qualcuno ti faccia: 'Bù!'»
«Sei un esperto», rise Javier, abbracciandolo scherzosamente, incapace di contenere il suo affetto per il ragazzo. Forse non era quello un argomento di cui parlare, pensò, gli avrebbe solo infettato la mente con le sue idiozie.
«Dimmi che cosa ti preoccupa, Javier. Come hai detto tu, la paura è la mia specialità. Mi farebbe piacere aiutarti.»
«Hai ragione… si ha paura di cose esterne a noi… tu hai paura del toro, io dell'uomo armato, entrambe cose imprevedibili. Ma sono soltanto momenti di paura, ci creano una terribile apprensione, li affrontiamo e poi passano.»
«Ecco, è proprio così, sai quanto me della paura. Controllarla fa parte del tuo addestramento, della tua volontà di affrontarla come cosa inevitabile.»
«Inevitabile?»
«Tu ti sei impegnato con lo stato ad affrontare criminali pericolosi per conto dei cittadini di Siviglia, io sono impegnato per contratto a combattere contro un toro. Sono responsabilità inevitabili che non possiamo schivare, altrimenti non potremo lavorare mai più. L'inevitabilità è utile.»
«La tua paura del fallimento è maggiore della tua paura del toro.»
«Prova a pensare a tutti i soldati che hanno combattuto in guerra, con armi tra le più distruttive che l'uomo abbia mai conosciuto… quanti di loro si sono comportati da vigliacchi? Quanti sono scappati? Molto pochi.»
«Forse questo significa che abbiamo una capacità enorme di accettare il nostro fato?»
«Perché cercare di controllare l'incontrollabile? Potrei smettere anche domani di fare il torero, perché ho troppa paura di essere ferito e di morire, eppure attraverso tranquillamente strade affollate di macchine, guido sulle autostrade e viaggio su aerei nei quali potrei facilmente incontrare una fine ingloriosa.»
«E così è inevitabile. Che cosa mi dici della volontà di affrontare la paura?» domandò Javier. «A me questo sembra coraggio.»
«Lo è. Siamo coraggiosi. Dobbiamo esserlo. Non è mancanza di paura. È riconoscimento della paura, è ammissione di debolezza e volontà di superarla.»
«Parli spesso di queste cose?»
«Con qualcuno dei toreri più intelligenti. Nella nostra professione non sono molte le menti eccelse. Ma dobbiamo tutti affrontare questo problema, anche i più grandi tra noi. Che cosa ha detto Paquirri quando un intervistatore gli ha domandato quale fosse la cosa più difficile da fare quando si era davanti al toro? 'Sputare', ha risposto lui. Nada más.»
«La prima volta che ho dovuto affrontare un uomo armato un superiore mi ha detto: 'Ricorda, Falcón, il coraggio è sempre retrospettivo. Lo si ha solo dopo'.»
«Questo è vero», disse Pepe, «e perciò possiamo parlarne, Javier.»
«Ma ora io sono nella morsa di una paura diversa», continuò Falcón, «una paura che non avevo mai sperimentato. Vivo in uno stato di timore permanente e il peggio è che non ho davanti a me un uomo armato o un toro e non importa quanto io sia coraggioso, perché non ho niente di concreto da affrontare… se non me stesso.»
Pepe corrugò la fronte. Voleva essere di aiuto. Falcón scacciò il problema con un gesto.
«Non ha importanza», disse, «non avrei nemmeno dovuto parlartene. Mi chiedevo soltanto se esistesse qualche trucco del mestiere, se i toreri, che convivono con la paura, avessero un modo di autoingannarsi…»
«Mai», affermò Pepe. «Non bariamo mai con noi stessi su questo. È un lato ironico della nostra professione. Si ha bisogno della paura, l'accogliamo con piacere anche se la odiamo, perché è la paura a permetterci di vedere bene, è la paura a salvarci la pelle.»