Falcón salì nella camera di Pepe. Uno dei suoi banderilleros era in piedi nel corridoio, le mani allacciate dietro la schiena. L'uomo schiuse la porta con circospezione, come se nella stanza vi fosse una vedova in lutto, mormorò qualcosa a Pepe e fece entrare Falcón.
Il torero era seduto su una sedia al centro della camera, la camicia sbottonata e fuori dai pantaloni. Era senza giacca, senza cravatta, non aveva né scarpe né calzini, a furia di stringersi la testa tra le mani aveva ridotto i capelli a una matassa arruffata, il sudore gli colava sulla fronte e sul petto. Era pallido, la sua paura messa a nudo.
«Non dovresti vedermi così», protestò.
Bevve un sorso d'acqua da un bicchiere posato sul pavimento e abbracciò Javier, scappando via subito per correre in bagno a vomitare.
«Mi hai sorpreso nella fase discendente», disse poi, «sono quasi arrivato in fondo alla mia paura, tra un momento comincerò a blaterare e tra mezz'ora sarò un'altra persona.»
Si abbracciarono di nuovo. Falcón avvertì l'odore acuto del vomito.
«Non preoccuparti per me, Javier», lo rassicurò Pepe. «Va tutto bene. Le cose stanno andando per il verso giusto, lo sento. Oggi sarà la mia grande giornata. La Puerta del Príncipe sarà mia.»
Stava farfugliando. Si abbracciarono un'ultima volta, poi Falcón uscì.
Il bar e il ristorante dell'albergo erano affollati, il chiasso cacofonico. Riuscì a strizzarsi dentro il comedor e distribuì baci e abbracci intorno alla tavola. Una volta seduto cominciò a divorare il tonno con le cipolle, a intingere il pane nel sugo dei peperoni arrostiti, succhiò gli ossicini delle chuletillas e bevve svariati bicchieri di vino rosso scuro, Marqués de Arienzo. Si sentiva di nuovo tutto intero, pieno e solido, i nervi intatti. Essere stato scoperto lo aveva in certo modo sollevato, la cosa non aveva più importanza per lui. Vedere Pepe così spaventato l'aveva rimesso in riga, ora avrebbe accettato tutto, compreso il suo destino.
Alle cinque si avviarono nel tepore delle strade verso La Maestranza, l'odore di sigari costosi e da poco prezzo mescolato a quello della colonia, della brillantina e del profumo da donna. Il sole era ancora alto e la brezza lievissima, condizioni quasi perfette. Ora toccava ai tori.
Il gruppo si divise. Paco e Javier si portarono ai loro posti privilegiati nella Sombra, mentre la famiglia si dirigeva a quelli omaggio nella Sol y sombra. Paco e Javier si sistemarono due file sopra l'arena, nelle barreras. Paco consegnò al fratello un cuscino con l'insegna della finca ricamata e tutti e due si immersero nell'atmosfera della España profunda. Il brusio della folla, i Ducados e i puros, gli uomini con i capelli imbrillantinati e pettinati all'indietro che aiutavano le loro consorti in abiti di seta a salire la gradinata. Una fila di ragazze con la tradizionale mantiglia di pizzo bianco sedeva sotto il palco reale. Ragazzi con secchielli di ghiaccio pieni di birra e di altre bevande giravano tra le gradinate, lanciando le lattine che i clienti afferravano al volo con altrettanta bravura. I soldi per le consumazioni passavano rapidamente di mano in mano.
I toreri avanzarono nell'arena con le loro squadre, tutti nei loro trajes de luces, dietro tre stalloni dal mantello grigio pomellato perfettamente presentati, con gli anteriori ben sollevati, che porgevano il collo alle redini. Pepe Leal si era ripreso ed era splendente nel suo abito blu e oro, sul volto l'espressione tranquilla dell'uomo pronto a svolgere il suo compito.
Gli stalloni si ritirarono, seguiti dai muli che avrebbero trascinato i tori uccisi fuori dalla plaza; parevano annuire sotto i pompon rossi. I tre toreri eseguirono una serie di gesti lenti e aggraziati con le cappe rosse. L'emozione del pubblico in attesa crebbe. I toreri si portarono dietro le barriere lasciando Pepe Leal, che doveva affrontare il primo toro, solo nell'arena con la sua muleta.
La porta sul buio si spalancò. Silenzio. Un'unica voce gridò parole di incoraggiamento e il toro, mezza tonnellata di animale, si precipitò incontro al sole della plaza e al ruggito della folla. Si guardò intorno, caricò, poi rinunciò e si mise a trotterellare. Pepe lo incitò e il toro gli passò accanto in un frastuono di zoccoli, senza mostrare nessun interesse per la muleta e infierendo con le corna sulla barriera. Pepe lo riportò indietro ed eseguì due medias verónicas e la folla ruppe il silenzio per applaudirlo.
Una tromba annunciò i picadores, che avanzarono nell'arena armati di lance, in sella ai cavalli dagli occhi coperti e protetti da imbottiture. Pepe attirò il toro verso un cavallo e nel momento in cui l'animale lo incornava, il picador si chinò con la sua lancia e la piantò nella gibbosità dei muscoli. Le zampe anteriori del cavallo si sollevarono da terra e la folla applaudì la volontà di combattere e la forza del toro.
I picadores lasciarono l'arena e la squadra di Pepe si allineò per piantare con abilità le banderillas nel collo dell'animale. Pepe si fece avanti per la sua faena e Javier e Paco si sporsero in avanti in attesa dell'azione finale.
Il nervosismo e il disinteresse per la muleta che il toro aveva mostrato all'inizio divennero più evidenti: Pepe occupò quasi mezza faena per persuaderlo ad attaccare e quando finalmente l'animale ebbe risposto, la banda attaccò un lento paso doble. Pepe dimostrò bravura nell'uccidere il toro, un animale distratto, e Javier e Paco giudicarono la prova tutto sommato buona. La folla applaudì, ma non si vide sventolare nessun fazzoletto bianco per chiedere un orecchio.
Il primo toro di Pepín Liria si rifiutò di combattere. Dopo una decina di passi nell'arena, nella luce abbagliante e nel clamore, fece dietrofront. Trotterellò lungo le barriere, colpendole con le corna. Il solo momento interessante fu quando si gettò contro la muleta: un corno si piantò nel terreno e il toro eseguì una perfetta capriola ricadendo con tutto il suo peso nell'arena.
Il toro di Vicente Bejarano era forte, veloce, interessato alla muleta e piacque subito alla folla; ma non era la giornata di Bejarano, che non riuscì a stabilire nessun contatto con l'animale e, pur costruendo qualche bel momento scultoreo, non arrivò mai a controllare il suo avversario.
Alle 18.40 il sole brillava ancora sulla folla in attesa fremente sulle gradinate del Sol: la porta si aprì sull'arena e Biensolo avanzò al trotto, poi si fermò e rimase immobile. Nessuna esplosione di furia, nessuna carica contro le barriere o insensati tentativi di incornare qualcosa. Si guardò intorno e decise che la plaza era sua.
Dalla folla si levò un mormorio: gli spettatori erano incerti su quel toro, un animale che forse la sapeva troppo lunga. Pepe si avviò verso di lui e distese la muleta davanti a sé. Il toro non gradì l'intrusione e lo caricò, rapido, diretto, a testa bassa. Da quell'istante la folla fu sicura che quello sarebbe stato il toro del giorno e tutti compresero che avrebbero assistito a qualcosa di unico, se Pepe fosse riuscito a controllarlo.
«Quel toro toccava a Pepín», commentò l'uomo seduto accanto a Paco.
«Stia a vedere», affermò Javier, «alla fine si ritroverà a urlare come tutti noi.»
Pepe eseguì due verónicas complete e una chicuelina. L'esaltazione della folla crebbe a dismisura e quando Biensolo, dopo qualche parola scambiata tra il torero e il picador, si lanciò con una violenza superba contro l'imbottitura che proteggeva il fianco del cavallo, con uno slancio tale che cavallo e cavaliere furono sospinti contro la barriera, il pubblico esplose. Quel toro lo aveva conquistato.