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22 gennaio 1959, Tangeri

A G. si sono rotte le acque e inizia un travaglio che P. descrive come uno stato di contrazioni quasi continue. P. è convinta che il bambino non sopravvivrà al trauma. Avverto R. in Spagna. Accoglie la notizia in silenzio. Dodici ore dopo compare nella casa, buia come una tomba nel cupo mattino invernale. Il cinquantenne medico spagnolo e la levatrice fanno quello che possono per far nascere il bambino, ma è nella posizione sbagliata e sembra bloccato. L'atmosfera è di abbattimento senza speranza, ricorda vagamente quella che circonda una camera di tortura, con le urla di G., la tensione del medico e dell'assistente e la nostra desolazione profonda. Dopo cinquantadue ore di travaglio nasce un maschio di tre chili. G. è così sfinita che se dovesse addormentarsi troppo profondamente potrebbe non risvegliarsi più. Il dottore rivolge una predica feroce a R., che gli domanda se sia possibile trasportare G. altrove. «Potrebbe non uscire viva da questa casa», dice il medico, «ma lo saprete fra una settimana.»

7 febbraio 1959, Tangeri

Scendo al porto con le tasche piene di dollari. Per G. è meglio essere trasportata su un mare calmo che sulla strada sterrata fino a Ceuta. La notte è tranquilla, i funzionari malleabili. Portiamo G. al porto in una grossa Studebaker e di lì sullo yacht che R. ha noleggiato. Mentre stanno per levare l'ancora arriva sulla banchina un'auto della polizia e nasce una discussione durante la quale i documenti vengono confiscati, il permesso di lasciare il porto revocato e dobbiamo tornare tutti alla capitaneria per essere interrogati. Domandiamo quali siano le contestazioni a nostro carico e restiamo allibiti quando ci rispondono che l'accusa è di frode e fanno il nome dell'impresa in cui R. ha investito i suoi soldi. R., convinto che non ci sia niente altro da fare, rinuncia a duecento dollari. Il denaro è intascato, i documenti sono restituiti, il permesso di salpare accordato con tanti saluti.

12 febbraio 1959, Tangeri

Mentre i legionari che avevo messo di guardia nella casa di fronte a quella di R. se ne stavano andando, si è presentato un gruppo di marocchini accompagnati da poliziotti con un mandato. Hanno sfondato la porta di casa di R. e portato via tutto. In seguito mi è arrivata a casa una lettera scritta in arabo che non so leggere. La porto alla legazione spagnola dove perfino l'interprete impallidisce nel tradurla.

«Mi chiamo Abdullah Diouri. Ero socio in affari del suo amico, di cui non riesco nemmeno a scrivere il nome. Forse lei sa che egli ha profondamente offeso l'onore della mia famiglia. Ha trattato una delle mie figlie più giovani come una volgare prostituta. La sua vita è rovinata e non c'è somma di denaro che possa riparare il danno fatto a lei o al buon nome della mia famiglia. Sappia che mi sono ritirato dall'affare in cui avevo investito denaro insieme con i miei soci.

«Dovrebbe riferire al suo amico che la famiglia di Abdullah Diouri sarà vendicata e il prezzo che esigeremo sarà lo stesso che è stato estorto a noi. Io ho perso una figlia e la mia famiglia è stata disonorata. Troverò il suo amico, dovessi cercarlo fino ai confini della terra, e vendicherò il mio onore.»

Nella lettera si avvertiva una crudezza e una mancanza di affettazione che le conferivano autenticità. I punti sopra e sotto le righe erano stati aggiunti in inchiostro rosso e l'effetto era di gocce di sangue. Ho fatto pervenire l'originale e la traduzione a R., il quale non è riuscito a lasciare Algeciras: G. è ancora in ospedale, dove era arrivata priva di sensi dopo la traversata.

17 marzo 1959, Tangeri

Negli ultimi sei mesi sono stato troppo occupato con i problemi di R. per poter riflettere sulla fine di un'epoca. Mi è arrivata addosso senza che me ne accorgessi, lasciandomi nella sua scia turbolenta. La partenza di R. è stata per me un colpo più duro di quanto pensassi. Siedo da solo al suo tavolo al Café de Paris e i discorsi che sento sono un lamento unico. Aziende che chiudono, in porto non si può caricare alcol o tabacco, gli alberghi sono vuoti, la moneta che dobbiamo usare è il dirham, i negozi eleganti in boulevard Pasteur sono stati rilevati da marocchini che vendono paccottiglia per turisti. Se non fosse per la presenza di B.H. nel palazzo di Sidi Hosni scompariremmo del tutto dalla scena del mondo. Con la pittura sono a terra. Sembra che io sappia soltanto copiare De Kooning anche se M. mi scrive che i miei «paesaggi umani» sono stati molto ammirati dai visitatori ammessi nella casa di M.G. Nemmeno queste parole riescono a contenere la mia sensazione di declino: mi sento come un antico romano dopo un baccanale, stanco e svogliato, incline all'ennui e preso da ansietà alla vigilia della caduta dell'impero.

R. mi fa sapere che vive nella Sierra de Ronda. L'aria pura e il clima asciutto giovano alla salute di G.

18 giugno 1959, Tangeri

Il primo caldo estivo è brutale. Il mio cervello è un ribollire di niente. Resto sdraiato sulle stuoie nel mio studio a bere tè e a fumare, dormo tutto il pomeriggio e mi sveglio alle otto di sera per trovare una temperatura appena sopportabile. All'improvviso mi viene in mente che è il compleanno di P. e che ho dimenticato di comprarle un regalo. Frugo in tutti i cassetti e trovo un cubo di agata montato su una modesta fascetta d'argento, probabilmente scartato da M. Gli sistemo intorno un po' di carta colorata in modo che l'agata faccia l'effetto del pistillo di un fiore. Comprimo tutto quanto in una scatoletta in modo che quando si toglie il coperchio il fiore salti su. Lego la scatola con una striscia di stoffa rossa e vado a casa.

Finiamo di mangiare a mezzanotte. I bambini stanno per andare a letto quando mi ricordo del regalo. Mando Javier da lei all'altro capo del tavolo con la mia scatolina. P. la scarta con grandi cerimonie, il fiore salta su e il coperchio colpisce il naso di Javier. Tutti sono divertiti e contenti, compresa P., finché all'improvviso assume un'espressione di assoluto imbarazzo. Per un attimo sono preso dal panico al pensiero che sia un anello che le avevo già regalato; ma sono sicuro che non è così, me ne sarei accorto. Il momento passa. Lei si infila l'anello, io la bacio e noto che non ne porta altri, a parte la fede nuziale. Questo mi sorprende perché ne aveva sempre avuto uno che non si toglieva mai, una fascetta d'argento con un piccolo zaffiro che le avevano regalato i suoi genitori quando era diventata donna. Sto per chiederle se lo abbia perduto, ma l'espressione sul suo viso quando ha visto l'agata mi ha messo a disagio.

XXX

Sabato 28 aprile 2001, Tetuán, Marocco

Falcón si alzò presto per prendere un grand taxi prima dell'alba e imbarcarsi su un aliscafo per Algeciras. Le ultime righe del diario erano impresse a fuoco nella sua mente. L'anello d'argento con quell'unico zaffiro era l'anello di sua madre, l'assassino aveva portato al dito l'anello di sua madre e per questa ragione aveva cercato di riprenderlo, perché ora Falcón sapeva che la chiave di tutto era nei diari. Quell'uomo era riuscito a entrare in casa di suo padre, aveva letto i diari e ne aveva portato via la parte cruciale; poi si era gettato nella sua orgia di vendetta. Ma come aveva potuto impadronirsi di un anello che sua madre non si toglieva mai? Verità imbarazzanti gli scivolarono nella mente insieme con il ricordo di essere sollevato in alto, sulla riva del mare nella baia di Tangeri, le piccole gambe che si agitavano in aria, al di sopra di una faccia di cui non riusciva a ritrovare la memoria.