Alle due del pomeriggio era di nuovo a Siviglia. Sulla segreteria trovò un messaggio del Comisario Lobo: questi, furioso, aveva consumato gran parte del nastro per dirgli come non fosse una coincidenza che il lacchè del Comisario León, Ramírez, avesse ufficialmente depennato Consuelo Jiménez dalla lista dei sospettati non appena aveva assunto il controllo delle indagini. A Javier non importava. Andò dritto nello studio di suo padre. La scatola dei gioielli era ancora aperta sul tavolo dove l'aveva lasciata. Afferrò l'anello di agata e lo strinse nel pugno, come se, imprimendovi la sua geometria, potesse far scattare il chiavistello della memoria. Camminò avanti e indietro, prendendo a calci una pila di riviste sotto il tavolo e facendola franare ai suoi piedi.
Una copertina era completamente nera, con un titolo inglese: Bound. L'aprì con un piede e indietreggiò di colpo. Le due fotografie che aveva visto erano visioni d'inferno, due donne con gli occhi bendati torturate da due uomini coperti da tatuaggi. Allontanò la rivista con un calcio.
Suo padre era stato trascinato sino a tal punto? Ossessionato dalla perdita del suo genio, era stato spinto, avendo dipinto il sublime senza più riuscire a ritrovarlo, verso le immagini più orride… per fare che? Per ritrovare la grandezza, sconvolgendosi la mente? Per seppellirsi nella speranza filosofica che la bellezza potesse esistere solo se accompagnata dal suo contrario? Falcón sentì di doversi liberare prima possibile di quelle immagini agghiaccianti e mentre allontanava le riviste a calci si accorse che tutta la pila consisteva di pornografia, spinta all'eccesso, bestiale, depravata al di là di ogni immaginazione.
Sul tavolo, sopra la pila di riviste, il rotolo delle cinque tele che non aveva riconosciuto. Le stese di nuovo e le fissò sulla parete di lavoro, notando che la tela era vecchia ma la pittura era acrilica, un tipo di colore che suo padre aveva cominciato a usare soltanto verso la fine degli anni 70. Era anche certo che non fossero opera di suo padre e rimpianse che Salgado non fosse lì per parlargli di quei dipinti.
Poi ricordò l'autore di falsi, il mezzo zingaro che abitava da qualche parte nell'Alameda, quello che a lui non piaceva, l'uomo che, in mutande nere, si era grattato i genitali mentre parlava con suo padre. Come si chiamava? Era qualcosa di strano, non un vero nome. Gli tornò in mente qualche altro particolare del suo laboratorio: tutti i dipinti erano capovolti sui cavalletti, quell'uomo li copiava alla rovescia. El Zurdo, ecco come si chiamava. Il mancino. Per imitare le pennellate eseguite con la destra metteva i quadri a testa in giù. Falcón trovò un indirizzo nella vecchia rubrica di suo padre, alla zeta, ma non un numero di telefono.
Salì su un taxi davanti all'hotel Colón e si fece portare in calle Parras, non lontano dall'Alameda. Nessuna risposta dall'appartamento di El Zurdo, ma il vicino gli disse che era andato a pranzo nel suo solito locale, un bar in calle Escuderos che si chiamava La Cubista.
Sei uomini soli seduti ai tavoli mangiavano guardando la televisione. Non ne riconobbe nessuno.
«Mi chiedevo quanto tempo ci avresti messo», disse una voce mentre Falcón si avvicinava al bancone del bar.
Il tintinnio delle posate cessò, ma la telenovela sullo schermo continuava e l'uomo che aveva parlato, un tipo scuro di pelle, dai denti lunghi, si alzò, i capelli grigi appena visibili sotto un cappello nero sulla cui fascia erano appuntati distintivi e spille. Era vestito di nero da capo a piedi.
«Tu devi essere Javier Falcón», disse.
«Che cosa glielo fa pensare?»
«Perché sei entrato con un rotolo di tele sotto il braccio e con l'aria di un bambino sperduto.»
«El Zurdo?»
L'uomo gli indicò la sedia di fronte a lui.
«Hai già mangiato?»
«Si stava chiedendo quanto tempo…»
«… Javier Falcón avrebbe impiegato a venire da me», disse, voltandosi per guardare il menu sulla lavagna. «Allora, cordero en salsa, escalopinas de cerdo o atún en salsa?»
«Cordero», rispose Falcón.
El Zurdo gridò l'ordinazione e Falcón appoggiò il rotolo di tele al tavolo vicino. Il suo bicchiere fu riempito di vino rosso.
«Ci siamo visti soltanto una volta», disse Falcón.
«E tu non hai voluto darmi la mano.»
«L'aveva appena usata per grattarsi.»
El Zurdo scoppiò in una risata. Una donna posò un piatto di stufato d'agnello davanti all'ispettore capo.
«Che cos'hai là?» domandò El Zurdo accennando alle tele.
«Cinque dipinti. Non li riconosco, non sono di mio padre. Volevo sapere se fossero copie fatte da lei.»
El Zurdo scostò il piatto vuoto e prese uno stuzzicadenti da un vasetto sul tavolo. Falcón cominciò a mangiare.
«Perché ti interessano questi dipinti? Sei un poliziotto, no? Me l'ha detto tuo padre.»
«Non sono in servizio, se è questo che pensa», rispose Falcón. «Sono in permesso.»
«Vuoi venderli?»
«Voglio sapere che cosa sono prima di bruciarli.»
El Zurdo si accese una sigaretta, si alzò, avvicinò i due tavoli e srotolò le tele, osservandole l'una dopo l'altra con aria sicura.
«Sono tutte mie», disse alla fine, «sono copie che avevo fatto per tuo padre, ma non sono lavori suoi. Mi aveva chiesto il favore di copiarli per un pittore svizzero che li aveva appena venduti alla galleria di Salgado e voleva evitare di pagare le tasse. Naturalmente lo svizzero avrebbe portato con sé le copie da mostrare alla dogana per far vedere che non aveva venduto nulla. Perciò non capisco come mai siano ancora nello studio di tuo padre.»
«Le tele su cui dipingere gliele aveva date mio padre?»
«Sì. Erano vecchie tele e c'era su qualcosa che tuo padre aveva coperto con uno strato di pittura.»
«Qualcosa di suo?»
«Non glielo domandai.»
El Zurdo continuò a fumare mentre Falcón mangiava.
«Vuoi sapere che cosa c'è sotto la pittura?» domandò El Zurdo.
«Credo di sì.»
«Non mi sembri tanto sicuro.»
«Si crede di voler sapere finché non si scopre di cosa si tratta.»
Presero un taxi che li portò a calle Laraña e alla Facultad de Bellas Artes, attraversarono il patio interno e salirono al piano superiore dove, per quindicimila pesetas, un amico di El Zurdo mise le tele in una macchina speciale e consegnò loro cinque immagini stampate delle opere originali che stavano sotto l'ultimo strato di pittura. Il risultato era incomprensibile, un nulla fatto di tratteggi incrociati, di bande nere su fondo bianco, qua e là un particolare riconoscibile, come un occhio, una gamba, uno zoccolo, la coda di un animale.
El Zurdo non riuscì a capirci nulla. Si salutarono ai piedi della gradinata, e lo zingaro disse che avrebbe sempre potuto trovarlo a La Cubista all'ora di pranzo. Javier tornò a casa a piedi. Buttò su un tavolo le tele e le stampe, telefonò ad Alicia e si accordò per vederla quella sera.
«Mi hanno sollevato dall'incarico», dichiarò mentre la terapeuta gli prendeva il polso, «e tra dieci giorni dovrò sottopormi a un esame psicologico completo.»
«Non ne sono sorpresa», soggiunse Alicia, «probabilmente il suo comportamento stava diventando piuttosto strano.»
«È stato per via di quel fatto con Inés e il Juez de Instrucción, lei ha pensato che la stessi pedinando, ma io l'ho incontrata per caso, come a volte succede nei miei pensieri.»