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«Mi ha già detto tutto questo.»

«Davvero? Ah, sì, per un pazzo pochi giorni diventano eoni. Io non faccio che rivivere la mia vita, ma continuo a sbattere contro un vuoto di memoria, ci sbatto più e più volte e alla fine sono esausto e ricomincio di nuovo fino a quando mi ritrovo davanti alla stessa porta chiusa. È sfibrante e fa sembrare storia antica il tempo tra le esperienze reali della vita quotidiana. Le ho detto che sono stato a Tangeri?»

«Non ancora. Perché ha deciso di andare a Tangeri?»

«Mi hanno dato un permesso per gravi motivi familiari.»

Le parlò della morte di Pepe Leal.

«Che cosa sperava di trovare a Tangeri… quarant'anni dopo?»

«Risposte. Nel Terzo mondo la vita non si muove con gli stessi ritmi di qui. Ho creduto di poter trovare qualche persona che ricordasse cose che io avevo dimenticato e che avrebbero rimesso in moto la mia memoria.»

«Ma perché Tangeri? Aveva perduto il suo lavoro a causa di Inés, perché non risolvere questo problema? Che cosa l'ha spinta laggiù?»

«Sono stato trascinato, non è stata una decisione conscia, sono andato dove mi ha condotto la sorte. Mi sono messo nelle mani di altri… e sono finito davanti alla nostra vecchia casa nella medina.»

«Nessuna decisione conscia?»

«Nessuna.»

«Mi ricordi quando esattamente si è manifestata questa sua specie di follia.»

«Ho avvertito il cambiamento in me quando ho visto la faccia della prima vittima.»

«E qual è stata la prima cosa, al di fuori delle sue indagini, che le ha fatto pensare che il cambiamento non fosse dovuto, per esempio, al trauma di uno spettacolo orripilante?»

Un lungo silenzio.

«Sono andato in centro per prendere la rubrica della vittima e mi sono imbattuto in una processione della Semana Santa. Non so perché, ma vedere la Madonna… per poco non sono svenuto. È stata un'esperienza sconvolgente.»

«Lei è credente?»

«Niente affatto.»

«E dopo di quello?»

«Ho visto mio padre in una delle foto della vittima e ho appreso che aveva avuto una relazione prima della morte di mia madre.»

«Ma nella sua vita?»

«Trovare i diari con la sua lettera… ha messo in moto qualcosa. Ha smosso qualcosa, intendo dire, una specie di… tenebra. Quella notte mi sono comportato in modo molto strano, ho creduto che potesse esservi qualcosa di perverso in me. Non avevo mai visto quel lato della mia natura, mi sono sempre comportato inflessibilmente bene. Deciso a comportarmi bene.»

«Lo fa perché ha paura?»

«Sì.»

«Di che cosa?»

«C'è stato dell'altro quella notte», rispose Falcón. «Stavo cercando di trovare la prostituta che era stata con la vittima la sera della sua morte. Era sparita. In quell'occasione l'assassino si è messo in contatto con me per la prima volta. Mi ha chiesto: 'Siamo vicini?' e poi ha aggiunto: 'Più vicini di quanto pensi', come se sapesse qualcosa di me, e ora so che era vero.»

«Che cosa crede che sapesse di lei?»

«Credevo volesse dire che eravamo vicini fisicamente, che mi avesse seguito, ma più tardi pensai che forse avesse voluto dire che non eravamo molto diversi, lui e io», disse Falcón, impuntandosi sulle parole. «Sapevo che aveva ucciso la ragazza e mi sentivo in colpa.»

«In colpa?»

«Sospettavamo che ci fosse un legame tra l'assassino e la ragazza, ma non abbiamo dato seguito alla cosa. Avremmo dovuto insistere. Abbiamo sbagliato…»

«Lei non ha sbagliato», disse Alicia, «la ragazza non ha voluto parlare, stava proteggendo l'assassino per motivi suoi.»

«Mi sento ugualmente colpevole.»

«Ma colpevole di che cosa?»

Lungo silenzio.

«Quella sera mi sono imbattuto in un'altra processione. E, sa, era… così bella… la Madonna. È ridicolo che un manichino vestito possa essere tanto… commovente», sospirò. «Non sono riuscito a sopportarlo, non sono riuscito a sopportare tutto ciò che rappresentava e ho dovuto fuggire, ho dovuto allontanarmi da lei.»

«E questo aveva a che fare con il suo senso di colpa nei riguardi della ragazza?»

«Sì. Con il mio fallimento.»

«Lei sa chi è la Madonna?»

«Sì.»

«Sa che cosa incarna?»

Falcón annuì.

«Lo dica», insistette Alicia.

«È la madre assoluta.»

«La madre assoluta», ripeté Alicia. «Mi dica perché è andato a Tangeri.»

«Volevo sapere come… volevo sapere che cosa fosse successo quando morì mia madre.»

«Lo ha scoperto?»

«Non proprio. Ho saputo che cosa era successo sulla strada, davanti a casa, un ricordo confuso che mi aveva sempre turbato. Era soltanto la donna del Rif, la cameriera di mia madre che aveva fatto una scena, una cosa abbastanza normale per le donne arabe. Probabilmente anche lei sa che…»

«Non crede a quello che sta dicendo, non è vero, Javier? Lei considera questo importante.»

«Non mi pare.»

Alicia emise un lento sospiro. Di nuovo l'impenetrabile muro.

«Che cos'altro ha trovato a Tangeri?»

«Un pettegolezzo assurdo sul modo in cui era morta la mia seconda madre.»

«La sua seconda madre?»

«Non lo ritengo credibile al punto da poter essere riferito.»

«E che altro?» domandò Alicia, reagendo bruscamente a quella resistenza a confidarsi.

«Ho un'inesplicabile paura del latte», rispose Falcón; e le raccontò dell'episodio nella medina di Tetuán e del sogno conseguente.

«Che cosa significa il latte per lei?»

«Niente.»

«E questo ha sognato, niente?»

«Volevo dire che non ha altro significato se non che ho sempre detestato il latte e i suoi derivati… proprio come mio padre.»

«E che cosa producono le madri per nutrire i loro bambini?»

«Devo andare», esclamò Falcón, «l'ora è già finita, lei avrebbe dovuto essere più rigorosa con me sul tempo.»

Si diressero alla porta e Falcón cominciò a scendere le scale senza voltarsi a guardarla e senza accendere la luce.

«Tornerà, non è vero, Javier?» gli gridò dietro Alicia.

Nessuna risposta.

Una volta a casa, si chiuse nello studio a sfogliare le immagini dei quadri stampate in bianco e nero, con il senso di colpa e di fallimento che gli scuoteva l'anima. Fissò le stampe alla parete e le guardò arretrando di qualche passo. Erano del tutto prive di senso. Provò a cambiare l'ordine in cui le aveva disposte, pensando che quello fosse il problema, ma ben presto si rese conto che le possibilità di disposizione erano migliaia.

Il vento soffiava nel patio, scuotendo la porta. Falcón uscì e, seduto sul bordo della fontana, batté il piede sulle lastre di marmo del pavimento, e quelle forme rettangolari gli ricordarono il diagramma caduto dal rotolo di tele.

Strappò dalla parete le stampe e salì di corsa nello studio del padre: il diagramma era ancora sul pavimento del ripostiglio, tra le scatole. Cinque rettangoli che si intersecavano, ognuno numerato. Si precipitò di nuovo al piano sottostante, posseduto dall'idea che la chiave del mistero fosse lì. Ma quale mistero? Nel patio rallentò il passo fino a fermarsi.

Le certezze. L'idea del crollo delle certezze gli rovinò addosso come in una serie di immagini da colossal biblico: statue rovesciate, chiavi di volta crollate, archi ripiegati su se stessi, colonne spezzate in giganteschi frammenti scannellati. L'immagine che aveva di suo padre non era già più quella di un tempo, si era cambiata in quella del legionario violento, del veterano di Leningrado traumatizzato dalle esplosioni, del contrabbandiere capace di uccidere e infine dell'artista tormentato. E tuttavia ognuno di questi aspetti poteva essere spiegato. Colpevole non era la natura dell'uomo, la colpa era del secolo più feroce della storia, della cruenta e crudele Guerra civile, della catastrofica Seconda guerra mondiale, della brutalità rimasta nella gente che, alla fine, si era trasformata nell'edonismo della Tangeri del dopoguerra; sarebbe sempre stato possibile puntare il dito contro le influenze esterne che avevano avuto un effetto devastante su Francisco Falcón nel suo stato di fragilità. Ma forse questo era diverso, forse questo gli avrebbe rivelato qualcosa di profondamente personale, una terribile debolezza che avrebbe portato allo scoperto il mostro nascosto. Ed era questo che voleva?