El Zurdo si distese sulla sedia, allargando le braccia.
«E che cosa c'entra sua madre?» si stupì Falcón. «Aveva detto che…»
«Sua madre non gli rivolse più la parola, gli fece mancare completamente l'affetto materno e si comportò come se il figlio non esistesse. Per lui non veniva nemmeno apparecchiato il posto a tavola. Per quanto la riguardava, con le sue idee meschine e bigotte, il figlio aveva commesso qualcosa che non poteva essere perdonato.»
«Glielo ha detto lui questo?»
«Molto tempo fa. Più di vent'anni, direi.»
«Quando eravate amanti?»
«Sì. Passò molto tempo prima che tornasse agli uomini dopo una cosa come quella. Soltanto a Tangeri, dopo la Seconda guerra mondiale, ricominciò a… anche se aveva avuto una passione per un altro legionario morto in Russia, Pablito… ma non era nato nulla tra loro e, naturalmente, fu una donna a tradire Pablito…»
«Parla di lui nei diari. Mio padre faceva parte del plotone di esecuzione che fucilò la donna», disse Falcón. «Aveva mirato di proposito alla bocca.»
«Sai perché la nostra relazione è durata così a lungo?» disse El Zurdo. «Perché non ho mai tentato di capirlo, non gli ho mai chiesto niente. Certe persone rifuggono dall'intimità e tuo padre era una di queste. Le donne vogliono capire, vogliono conoscere il loro uomo e, quando scoprono chi è e non ne sono contente, fanno una di queste due cose: cercano di cambiarlo oppure lo abbandonano. Sono parole di tuo padre, non mie. Io non sono mai stato con una donna, i miei gusti sono più particolari.»
Andarono a La Cubista per colazione. Javier ordinò tonno, El Zurdo scelse un piatto a base di carne di maiale e bevve vino durante il silenzio tormentato di Javier, incoraggiandolo a fare lo stesso fino all'arrivo delle portate.
«Sai per quale altro motivo io piacevo a tuo padre?» disse El Zurdo. «Questa è una cosa strana. Gli piacevo perché copiavo. Curioso, no? Ammirava il mio lavoro, gli piaceva il fatto che capovolgessi le tele, lo interpretava come una mancanza di rispetto per gli originali, anche se gli avevo detto che lo facevo solo perché non volevo essere distratto dalla completezza dell'opera, non dovendo fare altro che cercare di copiarla con la massima precisione. Sai, qualche volta pensava che le mie copie fossero, in effetti, migliori degli originali. Perciò due collezionisti americani hanno sulle pareti le mie copie firmate da lui. L'arte, mi diceva, era così. Niente è originale.»
Falcón sorseggiò il vino, prese coltello e forchetta e cominciò a mangiare.
«Quando lo ha visto l'ultima volta?» domandò poi.
«Circa cinque anni fa. Abbiamo pranzato qui, era contento, aveva risolto il suo problema di solitudine.»
«Si sentiva solo?»
«Tutto il giorno, ogni giorno. L'uomo famoso nella sua grande casa buia.»
«Aveva amici, no?»
«Mi aveva detto che non ne aveva. L'unico amico lo aveva perso nel 1975.»
«Chi era?»
«Raúl Jiménez… ho sentito che è stato assassinato di recente», rispose El Zurdo.
«E perché avevano smesso di vedersi?»
«È interessante. Io non riuscivo a capire perché mai fosse tanto furioso con lui. Mi disse che si era imbattuto in Raúl un giorno qui a Siviglia. A quanto pare vivevano nella stessa città, sulle due rive del fiume, ma non lo avevano mai saputo. Erano andati a pranzo insieme e tuo padre gli aveva chiesto notizie della famiglia e lui gli aveva detto che stavano tutti bene. Avevano parlato della fama di tuo padre e del successo del suo amico negli affari, insomma di tutte le cazzate di cui possono parlare due vecchi amici, se non che tuo padre non gli aveva chiesto come mai non avesse cercato di mettersi in contatto con lui. Voglio dire, data la celebrità di tuo padre, Raúl doveva aver saputo che viveva a Siviglia da più di dieci anni. Ma questo si spiega con quanto era successo. Alla fine del pranzo Raúl gli aveva detto una cosa del tutto inaspettata, che non aveva niente a che fare con la loro conversazione. Forse avrai letto nei diari che tuo padre aveva lasciato la Legione ed era venuto qui per fare il pittore. Aveva del denaro da parte, i risparmi della sua paga di combattente in Russia.»
«E qualcuno glieli aveva rubati», disse Falcón. «Per questa ragione mio padre finì per andare a Tangeri.»
«Giusto», confermò El Zurdo. «E proprio questo gli disse Raúl quel giorno alla fine del pranzo. Gli disse che era stato lui a rubargli quel denaro. E da quella volta non si sono più rivolti la parola.»
«Perché?»
«Tuo padre riteneva che Raúl Jiménez non avesse il diritto di modificare il corso della vita del prossimo. Ricordo la mia obiezione: se era per il meglio, che importava? Lui aveva fatto fortuna laggiù, era diventato famoso… ma non voleva ascoltarmi, girava infuriato per tutta la casa gridando: 'Mi ha rovinato! Quel cabrón mi ha rovinato!' E ti giuro, Javier, che non riesco ancora a capire di che rovina stesse parlando, visto quello che era riuscito a fare.
«Era anche infuriato perché Raúl glielo aveva detto. Non capiva assolutamente perché lo avesse fatto. Poi scoprì quello che era successo alla sua famiglia: la moglie si era suicidata, il bambino era morto, la figlia era finita in un istituto per malati di mente e il figlio maggiore aveva rotto i rapporti con lui. Un disastro totale, e allora tuo padre capì che a quel punto della sua vita l'ultima cosa che Raúl Jiménez voleva era un amico. Al contrario, voleva una nuova vita… una vita senza Francisco Falcón.»
«Prima ha detto che mio padre aveva risolto il suo problema di solitudine.»
«Mi aveva assicurato che non desiderava avere amici, ma anelava a una compagnia.»
«E Manuela?» domandò Javier. «Manuela non andava a trovarlo?»
«Sì, ma non gli era mai piaciuta molto, Manuela. Lei veniva a trovarlo qualche ora la settimana, ma non era questo che tuo padre voleva. Aveva bisogno di avere qualcuno che riempisse il vuoto della sua casa, qualcuno giovane e senza complicazioni, che guardasse avanti, che fosse sempre inesorabilmente allegro. E aveva fatto un accordo con l'università qui e a Madrid, per avere uno studente in casa per un mese alla volta. Per lui aveva funzionato. Io non lo avrei sopportato.»
«Non mi ha mai detto che si sentiva così solo.»
«Forse con te non voleva ammetterlo», disse El Zurdo. «Forse non voleva modificare il corso della tua vita.»
Era quasi buio quando Javier tornò a casa compiendo una lunga deviazione. Entrando, inciampò in due pacchetti sul pavimento; entrambi erano stati spinti dentro l'apertura dove il postino infilava le lettere e nessuno dei due aveva l'indirizzo, ma solo i numeri 1 e 2 scritti sull'involucro.
Li portò nel suo studio, dove teneva un paio di guanti di lattice, aprì il primo pacchetto e tirò fuori una busta sulla quale era scritto: «Lezione di vista n. 4». All'interno il cartoncino recava le parole: «La muerte trágica del genio».
Nel pacchetto c'era qualcosa d'altro, qualcosa di più pesante. Falcón distese un foglio di carta sulla scrivania e vi depose ciò che, a prima vista, gli era sembrato un pezzo di vetro ma che risultò essere la scheggia di uno specchio. La girò con la punta di una biro. Scritte con una sostanza che pareva sangue disseccato si leggevano le iniziali P.L.
Falcón si lasciò andare contro lo schienale della sedia. Sapeva che cosa stava facendo Sergio. Sergio si stava impossessando del mito elaborato dai media, dicendogli che aveva usato la scheggia di specchio per distrarre Pepe nel momento in cui stava per uccidere il toro. Javier non lo credeva, non era possibile; ma la cosa lo interessava, perché aveva capito che finalmente aveva forzato la mano a Sergio. C'era disperazione in quello stratagemma arrogante e poco sottile.