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«Don Javier», disse la donna, riportandolo di colpo alla realtà: non aveva usato il suo titolo questa volta.

«Mi dispiace», si scusò, «mi ero perso. Ero altrove, per meglio dire.»

«Non in un luogo dove avrei voluto essere anch'io», osservò lei.

«Stavo soltanto riesaminando mentalmente una cosa.»

«Allora deve aver visto qualcosa di terribile. Ha detto lei stesso che l'assassinio di Raúl è il più insolito della sua carriera.»

«Sì, l'ho detto, ma questa è una cosa del tutto diversa», ribatté Falcón. E si trovò sull'orlo di una confessione: una situazione, pensò, in cui l'Inspector Jefe del Grupo de Homicidios non avrebbe mai dovuto trovarsi.

IV

Giovedì 12 aprile 2001, Edificio Presidente,

Los Remedios, Siviglia

Le offrì un passaggio in macchina. La donna rifiutò e disse che sarebbe andata a casa di sua sorella. Falcón le domandò allora qualcosa sulla sorella, tanto per tenerla sotto pressione, e le ricordò che sarebbe passato a prenderla più tardi per accompagnarla all'Instituto Anatómico Forense, per l'identificazione del cadavere. Voleva interrogarla là, ancora traumatizzata dalla vista del corpo del marito, uno spettacolo che avrebbe cancellato in lei ogni traccia residua di autocompiacimento. Le chiese di sforzarsi di ricordare se, negli affari o nella vita personale di Raúl, vi fosse stato qualcosa di insolito nell'ultimo anno; le disse anche di telefonare subito ai ristoranti e di farsi dare i nomi delle tre persone licenziate per aver permesso al marito di mangiare più del dovuto, disubbidendo agli ordini. Era consapevole che si trattava di false piste, ma voleva suscitare in lei il timore della sua estrema accuratezza nelle indagini. Si strinsero la mano sulla porta dell'appartamento; la sua era sudata, quella della vedova fredda e asciutta.

Ramírez lo seguì nello studio di Jiménez.

«È stata lei», domandò, lasciandosi cadere sulla sedia con lo schienale rigido, «o l'ha fatto fare a qualcun altro, Inspector Jefe?»

Falcón rigirò la penna tra le dita.

«Notizie da Pérez all'ospedale?» domandò.

«La domestica è ancora in stato confusionale.»

«E le registrazioni delle telecamere?»

«Quattro persone non identificate dal portiere. Due individui maschi. Due femmine. Una delle donne mi sembra la puttana, ma ha un'aria molto giovane. Fernández ha portato tutto alla centrale per fare qualche stampa da mostrare in giro nel condominio.»

«E le altre uscite del palazzo? Il garage, per esempio.»

«In quel punto le telecamere non funzionano. Il portiere ha chiamato i tecnici stamani, ma non sono ancora arrivati. Semana Santa, Inspector Jefe.»

Falcón gli fornì i nomi e gli indirizzi degli impiegati licenziati raccomandando che fossero interrogati al più presto e Ramírez uscì. Falcón prese la fotografia della prima moglie di Raúl Jiménez, Gumersinda Bautista, chiamò la Jefatura e chiese di effettuare una ricerca su José Manuel Jiménez Bautista, nato a Tangeri alla fine degli anni '40, inizio anni '50.

Si appoggiò allo schienale sfogliando le altre foto con i loro volti senza nome, finché ne trovò una di Raúl Jiménez sul ponte di uno yacht. A malapena riconoscibile. Nessun indizio premonitore che lasciasse immaginare l'aspetto da rospo che avrebbe assunto in seguito: appariva bello e sicuro di sé, nell'atteggiamento di chi è cosciente di esserlo, le mani sui fianchi, le spalle erette, il petto in fuori. Falcón fece scorrere il pollice su quel torace, pensando che vi fosse una macchiolina sulla foto. La macchiolina non scomparve e, osservando meglio, Falcón si accorse che si trattava di una specie di ferita al muscolo pettorale destro, vicino all'ascella. Girò la foto: «Tangeri, luglio 1953», era scritto sul retro.

Suonò il cellulare. Il computer della polizia aveva trovato un indirizzo e un numero di telefono di Madrid per José Manuel Jiménez. Annotò tutto e chiese di Serrano e di Baena, altri due membri della sua squadra. Erano fuori per la Semana Santa. Ordinò che lo raggiungessero nell'appartamento di Jiménez.

Invece di ricontrollare i suoi appunti e programmare il successivo assalto alle raffinate difese di Doña Consuelo Jiménez, la quale, inutile negarlo, rimaneva la sua principale indagata, si scoprì a protendere la mano verso le vecchie istantanee. Vi erano alcune foto di gruppo, anche queste scattate a Tangeri, nel 1954 secondo le date sul retro. Esaminò i volti, convinto di essere ancora alla ricerca dell'immagine di suo padre, finché non si rese conto che si stava concentrando maggiormente sulle donne e si domandò se sua madre, morta sette anni dopo che quelle foto erano state scattate, potesse figurare tra quegli sconosciuti. Era affascinato dalla prospettiva di trovare una fotografia di lei, in compagnia di persone delle quali non aveva mai sentito parlare, in un periodo in cui non era ancora nato. Alcune facce erano troppo piccole e sgranate, così decise di portarsi le foto a casa per esaminarle con la lente d'ingrandimento.

Sfilò una sigaretta dal pacchetto di Celtas e l'annusò. Non fumava da quindici anni. Aveva smesso quando ne aveva trenta, lo stesso giorno in cui aveva troncato la sua relazione con Isabel Alamo, una relazione durata cinque anni. Le aveva spezzato il cuore, anche perché lei si era illusa che quel loro incontro si sarebbe concluso con una proposta di matrimonio. Il ricordo lo disturbò al punto da spingerlo a spezzare il filtro, prendere l'accendino e accendere la sigaretta. Un gusto orribile anche senza aspirare il fumo: Falcón la posò sul portacenere. Lasciò vagare i pensieri a un altro ricordo di Tangeri, il Capodanno del 1963. Era in piedi accanto alle scale, in pigiama; era piccolo, arrivava a malapena alla vita degli ospiti che stavano uscendo per recarsi al porto a vedere i fuochi d'artificio. Mercedes, la sua matrigna, la seconda moglie del padre, lo aveva preso in braccio per riportarlo a letto. Aveva quell'odore nei capelli, Celtas, qualcuno degli ospiti doveva aver fumato quella marca di sigarette. A Tangeri gli spagnoli erano ancora numerosi in quei giorni, anche se i bei tempi erano passati da un pezzo. Mercedes lo aveva messo a letto, lo aveva baciato, se l'era stretto con forza al petto. Falcón lasciò il ricordo a quel punto. Normalmente pensava a Mercedes soltanto quando gli capitava di avvertire il profumo Chanel N° 5, il suo preferito.

Un colpo bussato alla porta lo riportò al presente. Serrano e Baena erano in piedi nel corridoio.

«Avete fatto presto», disse Falcón.

I due uomini entrarono con una certa esitazione, a disagio, pensando che il commento avesse una sfumatura ironica, di rimprovero. Avevano impiegato quaranta minuti per arrivare.

«Traffico», disse Baena, per risolvere il problema in entrambi i casi.

Falcón rimase sconcertato nel vedere la sigaretta ridotta in cenere davanti a lui. Un'occhiata all'orologio lo lasciò stupefatto: erano le undici e non aveva ancora concluso niente. Scorse le sue annotazioni per controllare l'ora in cui, secondo Ramírez, gli uomini dei traslochi si erano allontanati per la colazione e ordinò a Serrano e a Baena di cercare nel vicinato un testimone che avesse visto una persona, probabilmente in tuta, salire sui binari dell'autoscala fino al sesto piano dell'Edificio Presidente.

Il Subinspector Pérez telefonò per dire che la domestica, Dolores Oliva, aveva finalmente ripreso conoscenza. Non c'era stato verso di farla parlare finché non aveva avuto un rosario in mano e per tutto il tempo del colloquio non aveva fatto altro che stringere un portachiavi con l'immagine della Virgen del Rocío. Era convinta di essere venuta in contatto con il male assoluto, entrato non si sa come nella casa. Falcón tamburellò con le dita sulla scrivania. Era sempre così con Pérez. L'accademia e undici anni sul campo non lo avevano guarito dalla necessità di trasformare un rapporto in una storia da raccontare. Gli occorsero otto minuti per riferire che Dolores Oliva aveva aperto la porta con cinque giri di chiave.