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«Noi siamo i loro cagnolini ammaestrati», spiego, «siamo i loro giocattoli, sì, anch'io lo sono, Ramón. Ci accarezzano, ci danno qualche bocconcino, si divertono con noi, poi si stancano e ci buttano via. Noi non siamo niente per quella gente, assolutamente niente. Meno di giocattoli. Perciò, quando sorseggerai il loro champagne, ricordati che è per l'alta opinione di questi personaggi senza nessun valore che tu hai ucciso quel ragazzo.»

Le mie parole gli sfondano il petto come proiettili di grosso calibro. Si abbatte sulla sedia.

«Per loro?» domanda stupefatto.

«Hai ucciso il ragazzo perché non ti piaceva l'idea che quella gente sapesse di questo lato di te, l'hai ammazzato perché questa è l'unica cosa di te che trovi odiosa e credi che anche gli altri la giudichino così. E hai sbagliato completamente.»

Singhiozza. Io gli batto la mano sulla spalla.

«Francisco», dice, «dove sarei senza di te?»

«In un posto molto più piacevole», rispondo.

Non è stato difficile liberarsi del cadavere. Alle tre del mattino lo abbiamo trasportato nel giardino dell'albergo e sollevato al di là del muro. Lo abbiamo messo sulla macchina, lo abbiamo portato alla scogliera fuori città e lo abbiamo buttato in mare. Mentre tornavamo in città Ramón guardava fuori dal finestrino, incapace di pronunciare una parola, un uomo che doveva venire a patti con una realtà totalmente diversa, una realtà nella quale, a causa di un momento di cecità, niente sarebbe stato lo stesso mai più. Se si è costretti a uccidere. Se non c'è più niente da fare. Allora bisogna uccidere tenendo gli occhi ben aperti.

Falcón lasciò che i fogli fotocopiati gli cadessero dal grembo e si sparpagliassero sul pavimento. Era ipnotizzato dai suoi pensieri, dalla conferma del fatto che l'assassino avesse avuto accesso ai diari di suo padre; e ora, con le informazioni avute da El Zurdo, Falcón sapeva che doveva trattarsi di uno degli studenti d'arte che suo padre aveva ospitato in casa per sentirsi meno solo.

La Facultad de Bellas Artes era certamente chiusa, El Zurdo irraggiungibile. Sfogliò la rubrica di suo padre e trovò il nome di una persona dell'università con il numero di telefono di casa. Provò a chiamare, ma non ottenne risposta.

I suoi pensieri si rivolsero a Raúl Jiménez e alla rivelazione che aveva provocato la rottura con Francisco Falcón. Gli sembrava improbabile che suo padre non ne avesse fatto parola nei diari, poi si rese conto che era avvenuta in una data successiva a quella delle righe finali, nelle quali annunciava di essere ormai definitivamente annoiato.

Javier scostò bruscamente la sedia e corse al piano superiore, rallentando poi il passo quando fu nella galleria fino a fermarsi davanti allo studio di suo padre, lo sguardo fisso nella pupilla nera della fontana nel patio. Un'idea apparentemente priva di collegamento gli aveva attraversato la mente. Uno degli elementi insolubili del caso era ciò che Sergio aveva costretto Raúl Jiménez a vedere. Dove aveva preso quelle immagini? Gli scheletri nell'armadio di Salgado erano stati abbastanza facili da scoprire per gli investigatori, avevano trovato il baule nella mansarda e i film, ma con Raúl Jiménez non erano arrivati mai a niente; nonostante le interminabili ricerche alle Mudanzas Triana, non si era trovata nessuna prova che il materiale là conservato da tempo fosse stato manomesso.

Si staccò dalla parete della galleria ed entrò nello studio del padre. L'ultimo diario era nel ripostiglio. E là, una decina di pagine dopo quella che aveva creduto essere l'ultima, lesse:

13 maggio 1973, Siviglia

Sono così inferocito che ho dovuto ritornare a questo confessionale nella speranza di ritrovare un po' di calma.

La storia che Falcón aveva sentito da El Zurdo terminava così:

Non riesco a capire perché abbia voluto dirmelo ora ed esco ruggendo dal ristorante. Mi grida dietro: «Se non fosse per me, a quest'ora staresti dipingendo infissi a Triana!» È stato un insulto colossale e calcolato per il quale riceverà una punizione appropriata.

17 maggio 1975, Siviglia

Un poscritto al mio ultimo sfogo. Ho scoperto che il mio vecchio amico R. è già stato punito. Sembra che il figlio più piccolo sia morto ad Almería, che sua moglie si sia suicidata gettandosi nel Guadalquivir qui a Siviglia, che sua figlia, Marta, sia finita in un istituto per malati di mente a Ciempozuelos e che il figlio maggiore viva a Madrid e non voglia più avere rapporti con lui. Dopo queste tragedie, qualsiasi cosa io avessi in mente sembra nulla. Ora credo che l'abbia detto solo per liberarsi di me. Io ero per lui soltanto un altro reperto di quell'era sciagurata.

Falcón sfogliò le pagine vuote fino alla fine, poi tornò a ciò che aveva appena letto e lo rilesse. La parola «Ciempozuelos» lo colpì. Da quelle righe Sergio aveva forse saputo tutto, tutta la tragedia familiare, e gli si era presentata un'occasione: Marta a Ciempozuelos. Ma Marta non parlava o quasi. Falcón ricostruì mentalmente la sua visita laggiù. Il dottore che medicava la ferita di Marta. Ahmed che la riportava nella corsia, Marta che vomitava dopo il trauma della caduta. Ahmed che andava a prendere il carrello per pulirla. E a un tratto lo vide, con la chiarezza di un'idea creativa: il piccolo baule sotto il letto di Marta.

XXXII

Domenica 29 aprile 2001, casa di Falcón, calle Bailén, Siviglia

Ahmed non gli aveva detto che cosa contenesse quel baule. Falcón controllò l'ora: le dieci di sera. Scese nello studio, prese il taccuino, sfogliò le pagine finché trovò il nome del medico di Marta, la dottoressa Azucena Cuevas. Telefonò all'ospedale a Ciempozuelos: la dottoressa era tornata dalle ferie e sarebbe stata reperibile l'indomani mattina. L'ispettore capo parlò con l'infermiera di notte del reparto di Marta, spiegò il suo problema e ciò che desiderava vedere. L'infermiera gli disse che l'unico momento in cui Marta si lasciava togliere la catenina con la chiave era durante la doccia quotidiana e che la mattina seguente avrebbe riferito alla dottoressa Cuevas la sua richiesta.

Avendo preso una pillola di troppo, Falcón dormì più a lungo del solito e fece appena in tempo a salire sul treno AVE di mezzogiorno per Madrid, sempre affollato di lunedì. Era come al solito in giacca e cravatta, l'impermeabile sul braccio e il revolver carico nella fondina. Dal treno telefonò alla dottoressa Cuevas, che accettò di rimandare la doccia di Marta al pomeriggio.

Dalla estación de Atocha prese un taxi direttamente per Ciempozuelos e alle tre e mezzo del pomeriggio era seduto nello studio del medico in attesa che l'inserviente addetta alle pulizie portasse il bauletto di Marta.

«Che cosa sa dell'infermiere, di Ahmed?» domandò Falcón.

«Della sua vita privata, niente. Per quanto riguarda il lavoro è bravissimo, di una pazienza infinita, nessuno lo ha mai sentito alzare la voce con questi poveri infelici.»

Il bauletto arrivò e qualche minuto dopo un'infermiera portò la chiave e il medaglione attaccati alla catenina di Marta. Falcón aprì il baule, che era in realtà un vero e proprio altarino dedicato ad Arturo. L'interno del coperchio era coperto di fotografie che Marta era riuscita in qualche modo a conservare. Un biglietto di auguri di compleanno fatto a mano mostrava una donna stilizzata con gli occhi che sporgevano dalla testa, i capelli rigidi come stecchi e «Marta» scarabocchiato sotto. Dentro il bauletto macchinine di metallo, un calzino grigio da bambino, un vecchio quaderno, matite mordicchiate. Sul fondo due rulli di pellicola da 8 mm, uguali a quelli trovati nel magazzino delle Mudanzas Triana. Falcón mise un pezzo di pellicola davanti alla luce e vide Arturo in braccio alla sorella. Rimise tutto a posto, abbassò il coperchio e chiuse il baule. Aprì il medaglione: conteneva un unico ricciolo di capelli castani. Restituì la catena all'infermiera mentre l'inserviente portava via il bauletto.