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«Dov'è Ahmed in questo momento?»

«Nel parco, sta facendo passeggiare due pazienti.»

«Non voglio che sappia di questa mia visita.»

«Potrebbe essere difficile», obiettò la dottoressa Cuevas, «la gente parla, non c'è altro da fare qui.»

«C'è mai stato uno studente d'arte che abbia lavorato nel reparto di Marta?»

«Qualche tempo fa abbiamo sperimentato per tre mesi una terapia artistica», rispose la dottoressa Cuevas.

«Quale specie di terapia?» domandò Falcón. «Chi erano i terapeuti?»

«Erano tutti volontari, si trattava di una cosa che facevamo il sabato e la domenica. Volevamo vedere se i pazienti avrebbero reagito positivamente a un'attività creativa che potesse far loro rivivere l'infanzia.»

«Da dove venivano gli artisti?»

«Uno dei membri del consiglio di amministrazione dell'ospedale è un regista. Aveva reclutato quelli della sua troupe che avessero avuto una formazione artistica. Tutti giovani.»

«I loro nomi sono stati registrati?»

«Sì, per forza, abbiamo provveduto noi alle loro spese di viaggio.»

«Come venivano pagati?»

«Per quel che so io, con un assegno mensile. Se vuole avere i particolari, deve rivolgersi in amministrazione.»

«Non ricorda nessun nome dei giovani di sesso maschile che hanno collaborato nell'esperimento?»

«Solo i nomi di battesimo: Pedro, António e Julio.»

«Non c'era un Sergio?»

«No.»

«Andrò a parlare con il personale amministrativo.»

La dottoressa Cuevas aveva ragione, un Pedro e un António avevano fatto parte dei volontari, entrambi con cognomi assolutamente spagnoli. Il terzo nominativo fornito dalla segretaria del servizio amministrativo colpì tuttavia l'attenzione di Falcón, perché si trattava di un certo Julio Menéndez Chefchaouni.

Alle nove di sera era di nuovo in calle Bailén e, aprendo la porta, inciampò in un altro pacchetto, anche questo senza indirizzo e con il numero 3 scritto sull'involucro.

Era esausto. Portò il pacchetto nel suo studio, dove la spia della segreteria stava lampeggiando: un messaggio del Comisario Lobo che lasciava il suo numero di casa, ma Javier non ebbe la forza di richiamarlo e s'infilò direttamente sotto la doccia.

In cucina lo aspettavano pane e chorizo che annaffiò con vino rosso, poi si portò qualche cubetto di ghiaccio nello studio dove, nel mobile bar, trovò una bottiglia di whisky. Versò due dita di liquore. Si stirò i muscoli prima di sedersi, soddisfatto al pensiero che, per la prima volta, aveva preceduto le mosse di Sergio: non lo stava più inseguendo, ma gli girava intorno. Aprì il pacchetto. Conteneva altre fotocopie dei diari di suo padre.

1° luglio 1959, Tangeri

Ho un nuovo giocattolo, cioè un binocolo. Seduto sulla veranda guardo la gente sulla spiaggia e disegno i corpi dei bagnanti, ignare nature morte. Più che dalle flessuose figure dei giovani, scopro di essere attratto dalla geografia cadente dei corpi dei vecchi e dei malmessi. Li disegno come paesaggi: scarpate, contrafforti tra loro connessi, crinali, pianure e l'inevitabile frana fangosa. Mentre addestro i miei nuovi potenti occhi mettendo a fuoco la spiaggia, il binocolo incontra P. e i bambini. La mia famiglia che gioca. Paco e Manuela stanno costruendo un castello alla Gaudí, Javier tormenta P. che finisce per accompagnarlo fino al mare. P. cammina e Javier salta nell'acqua bassa, la mano in quella della mamma. Sono affascinato da ciò che vedo, dalla quotidianità ancor più meravigliosa perché inconsapevole, finché P. si ferma e Javier si mette a correre e viene afferrato da uno sconosciuto che lo lancia in aria e lo depone di nuovo sulla sabbia. Esigente, Javier batte i piedi e lo sconosciuto lo accontenta, lo afferra di nuovo e lo solleva in alto. È un marocchino sui trentacinque anni. P. gli si avvicina, vedo che lo conosce. Parlano per qualche minuto mentre Javier fa monticelli di sabbia ai piedi dell'uomo. Poi P. si allontana, prendendo per mano Javier che si gira per salutare lo sconosciuto. Rimetto a fuoco il marocchino, ancora fermo in piedi a testa alta nel sole. Segue con lo sguardo P. e il bambino finché non si confondono con la folla dei bagnanti. Noto ammirazione sul suo viso.

1° novembre 1959, Tangeri

Sono arrivate le prime piogge e la spiaggia è deserta. C'è poca gente in città, il porto è vuoto. Il mese scorso il decreto di Mohammed V che concedeva a Tangeri uno statuto speciale è stato abrogato. Il Café de Paris è frequentato solo da pochi clienti lamentosi che danno la colpa della crisi al recente spostamento degli affari a Casablanca, da sempre invidiosa dei vantaggi di cui ha goduto Tangeri. Vado nella medina e siedo a un tavolino del Café Central, sotto le terrazze gocciolanti, dove ora servono soltanto caffè scadente e tè alla menta. Mi rendo conto di essere osservato, il che è insolito, in genere sono io a osservare gli altri. Lascio vagare lo sguardo sulle teste inturbantate, sui burnus tirati su fino al mento, sulle babouches che battono contro i calcagni induriti, finché mi imbatto nella faccia dell'uomo che aveva parlato con P. sulla spiaggia. Ha una matita in mano. I nostri sguardi si incontrano e intuisco che mi ha riconosciuto. Poco dopo se ne va. Chiedo al cameriere se lo conosce, ma sembra che quell'uomo non sia mai stato nel locale prima d'ora.

R. mi dice che si trasferirà di nuovo. La lettera di Abdullah Diouri lo ha davvero colpito nel profondo.

3 dicembre 1959, Tangeri

Scrive M., molto abbattuta. I dolori allo stomaco di M. G. sono dovuti a un tumore al fegato, questa è stata la diagnosi, e nessun chirurgo è disposto a operare. Sembra che sia una questione di mesi, se non di settimane. Si era veramente attaccata a M.G. e so che questa notizia sarà un colpo devastante per lei. Mi chiede di Javier, altra persona di sesso maschile che le è entrata nel cuore. Leggendo la sua lettera sono preso dalla nostalgia di come eravamo, io e P., e questo pensiero mi fa balzare su dalla sedia. Passeggio avanti e indietro nella stanza. C'è un intruso nella mia testa e rovisto nei pensieri finché trovo la faccia dell'uomo sulla spiaggia. So che non troverò pace fino a quando non avrò saputo chi sia.

7 aprile 1960, Tangeri

Non lavoro più, non riesco a lavorare, la mia mente non trova un punto fermo, non sopporto di stare nello studio e vago per la città e nella medina guardando le facce della gente, osservando e aspettando di incontrare lo sconosciuto. È la mia nuova ossessione. Vivo dentro la mia mente, che ha la logica bizzarra della medina, ma finisco sempre in un vicolo cieco.

10 maggio 1960, Tangeri

Avevo ormai rinunciato alla speranza quando, percorrendo il boulevard Pasteur, sono stranamente attratto da un oggetto nella vetrina di uno dei negozi di souvenir, una statuetta scolpita in osso. Mentre alzo lo sguardo dalla scultura, vedo lo sconosciuto della spiaggia che serve nella bottega. In un primo momento penso che sia il proprietario, poi vedo un vecchio che sta alla cassa. Entro e, ignorando lo sconosciuto, domando al vecchio qualcosa sulla statuetta; lui mi dice che è opera di suo figlio. Sono interessato e voglio sapere come si chiama: il nome è Tariq Chefchaouni. Il vecchio dice anche che suo figlio ha un laboratorio in periferia, sulla strada per Asilah. Mentre parliamo noto accanto alla cassa un cestino pieno di anelli da poco prezzo. Quattro sono cubi di agata montati su semplici fascette d'argento. Ora comprendo la perplessità di P. O era paura?