Выбрать главу

Quando lesse il nome per la prima volta, Falcón si alzò di scatto e compì un giro dello studio stringendo i pugni. L'indomani mattina avrebbe avuto il numero del documento di identità dell'assassino e un indirizzo. Bevve altro whisky e si riempì di nuovo il bicchiere.

2 giugno 1960, Tangeri

Una lettera di M. M.G. è morto, dopo essere vissuto due mesi più del previsto. È sconsolata. Le scrivo per farle le mie condoglianze e la esorto a venire in Marocco, suggerendole di lasciare la sua città, la scena del dolore. Sono egoista. Ho bisogno di una compagnia, P. e io ci comportiamo come due estranei; o meglio, come se ci fosse un estraneo tra di noi. Dovrei domandarle di Tariq Chefchaounì, dovrei, in quanto suo marito, esigere di sapere chi abbia frequentato sulla spiaggia, ma non lo faccio. Perché no? Frugo dappertutto nel mio animo, cercando una spiegazione e non ne trovo nessuna, se non che l'idea sembra spaventarmi. È possibile che sia spaventato io, un veterano di Krasni Bor? Ma non si tratta di paura fisica, mi sgomenta rivelare la mia vulnerabilità. Sono sbigottito scoprendo che tutto questo è cominciato l'estate scorsa e che mi tormenta da un anno intero.

3 giugno 1960, Tangeri

Torno in boulevard Pasteur e aspetto davanti al negozio che il giovane esca, poi entro e chiedo al padre quanto voglia per la piccola scultura in osso. Dice che non è in vendita (una tecnica che conosco) e cominciamo a mercanteggiare. Non conduco bene il gioco, perché l'idea che T.C. possa ritornare da un momento all'altro mi mette troppa agitazione. Pago trenta dollari, una somma che mi pare esorbitante finché, tornato nello studio, mi rendo conto che è effettivamente un pezzo di grande valore. Le linee, le forme sono di una bellezza sconvolgente, di una finezza che contrasta con la qualità macabra del materiale usato. Quest'opera dice qualcosa di ambiguo su ciò che significa essere un uomo. Comincio a pensare che il vecchio non sia stato niente affatto astuto, ma abbia commesso in realtà un errore imperdonabile.

18 giugno 1960, Tangeri

Ecco come sono fatto. È il compleanno di P. Invece di regalarle il solito gioiello incarto la piccola scultura in osso, faccio venire mia moglie nello studio verso sera e servo champagne sulla veranda. C'è ancora luce e fa caldo, con una gentile brezza di mare. Quando le porgo il regalo siamo come sospesi in un momento perfetto. P. è tutta eccitata, perché in genere i miei sono sempre pacchetti piccoli, non le ho mai donato nulla che misuri quaranta centimetri di altezza. Strappa la carta come una bambina e io la osservo come un lupo in agguato. Lei arriva, per così dire, all'osso e io so. Il suo viso, per una frazione di secondo, si è spaccato in due, gli occhi si sono ingranditi e sembrano staccati dal viso. Poi si riprende. Torniamo allo champagne. Il cielo si fa scuro. Sento che mi sta guardando come se fossi una bestia strana in forma umana, ma che, sbadatamente, abbia lasciato intravedere una zampa pelosa. Ho ciò che voglio, lei ha ciò che desidera. La scultura è sulla sua toletta.

Una lettera mi informa che M. è stata trattenuta da problemi legali. Sembra che i figli di primo letto di M.G. non la ritengano degna di ereditare metà del patrimonio del defunto marito.

3 agosto 1960, Tangeri

Trovo il laboratorio di T.C. e mi dicono che d'estate lui non c'è mai. La casa, ne sono sicuro, consiste di non più di due stanze con un giardino sul retro. È isolata dagli altri edifici, perciò non fa parte dell'abitazione della famiglia. Torno di notte e aspetto e osservo. Tutto è silenzioso. Sono di nuovo lì la notte successiva e scavalco il muro del giardino rigoglioso che sa di terra bagnata. Al centro vedo un grande serbatoio di mattoni pieno d'acqua fino all'orlo. Il lucchetto della porta sul retro si apre facilmente. All'interno un materasso di paglia su un giaciglio di legno e, in un angolo, un recipiente ricavato da una zucca, nient'altro. Esito nell'avvicinarmi alla porta della stanza attigua, quasi avessi una premonizione che la mia vita non sarà più la stessa dopo che ne avrò attraversata la soglia. La stanza è il suo studio, ingombro come il mio, delle stesse cose. La mia torcia illumina ferro battuto, sculture in pietra, intagli in corno e gioielli finché non incontra il bordo di un dipinto.

Punto il fascio di luce su di esso e vengo attratto come se cadessi sulla punta della mia stessa spada. In fondo alla stanza tre nudi astratti. Guardarli nel pulviscolo di quel raggio luminoso non è il modo migliore per osservarli, ma perfino in quella penombra infelice la loro qualità si impone. Due nudi sono distesi, uno è eretto. Comprendo immediatamente, sebbene siano astratti, che il soggetto è P. Mi sento strappare le viscere a quella vista. Quei dipinti sono lo sviluppo perfetto e bellissimo dei miei disegni a carboncino di P. di quindici anni prima. Lacrime cocenti mi bagnano il viso al pensiero che questa dovrebbe essere la giusta conclusione del «mio» lavoro.

Sul tavolo è posato un album da disegno che mi è impossibile non sfogliare. Disegni di grandissima qualità, particolari figurativi, una mano, una caviglia, una gola, seni grossi e pesanti, natiche, una vita, un ventre. Sono incantato. Poi arrivo al mio volto, uno schizzo brillante. Seguono sviluppi su questo stesso tema, caricature sempre più orribili finché, nell'angolo destro in basso, io sono un bruto, un orrendo personaggio da fumetto. Mi trema la mano per la rabbia, la visione che lui ha di me mi conferisce ogni diritto, ormai sono capace di tutto.

30 ottobre 1960, Tangeri

L'estate è finita, i turisti ci hanno abbandonato. Esco di casa e aspetto P. al mercato. La vedo attraversare il Petit Soco e dirigersi al posteggio dei taxi del Grand Soco, dove sale su una vecchia Peugeot. La seguo con il taxi successivo, allungando altri dirham al tassista mentre gli indico il percorso da seguire. La Peugeot si ferma davanti al laboratorio di T.C., P. scende e viene fatta entrare. Dico al tassista di aspettarmi, scavalco il muro del giardino. La porta della camera da letto è aperta, dallo studio sento le voci di T.C. e P. ridere. Il battente è socchiuso. Vedo P. nuda che scavalca la sua biancheria sul pavimento e si dirige verso un lenzuolo scomposto per terra. Si inginocchia voltando le spalle a T.C. la cui veste sta già rivelando i grotteschi segni di un'erezione. Dapprima T.C. lavora con la matita, ha un modo particolare di creare ogni linea come se disegnasse con tutto il suo corpo, linee che diventano un balletto di svolazzi, quasi in una danza trasferisse l'opera da se stesso alla carta. Lavora su tre fogli, poi chiede a P. di cambiare posizione. Si sposta dietro di lei e le raccoglie i capelli sulla nuca, fermandoli con un pennello, poi davanti e le fa raddrizzare le spalle in modo che la colonna vertebrale formi una linea curva. P. si accorge della sua eccitazione e, con un gesto d'istintiva intimità, gli rialza la veste e lo accarezza finché T.C. comincia a tremare. P. si abbassa su di lui e T.C. respira affannosamente, poi gli preme una mano sulle natiche e lo attira verso di sé. Lentamente abbassa la testa come in una preghiera. Le mani dell'uomo tremano sulle sue spalle e gli sfugge il grido di un bambino svegliato all'improvviso durante la notte. Lei beve il suo seme. Me ne vado.

Torno in taxi al mio studio e per la prima volta da mesi prendo in mano il pennello. Porto vicino alla parete cinque tele vuote, preparo il colore nero, afferro la matita. Ho la mente d'acciaio. I pensieri sfrecciano lungo canne di fucile come proiettili e in pochi minuti abbozzo un disegno di un'oscenità assoluta, con P. tra satiri dai sessi di dimensioni spaventose. Dipingo con perverso vigore, ma con enorme chiarezza e precisione e quando stacco le tele dalla parete, per chi le guarda, non sono altro che cinque tele in bianco e nero. La mia vendetta prende forma soltanto con una determinata configurazione.