3 dicembre 1960, Tangeri
Non lavoro. Osservo soltanto. L'occhio non fa che posarsi sul groviglio di due esseri. Sono di ghiaccio, la mia mente ha la chiarezza di un grido lanciato in un campo immobile coperto di neve. Conosco ormai perfettamente le abitudini invernali di T.C. Si alza tardi, sempre dopo mezzogiorno, va a fare colazione e a bere il tè in un piccolo caffè, poi fuma tre o quattro sigarette. Nel pomeriggio di rado torna nel suo studio, qualche volta va a casa dalla sua famiglia: ha una moglie e tre bambini, due maschi e una femmina tra i cinque e gli otto anni. Altre volte va sulla spiaggia. Gli piace il brutto tempo. Io lo osservo dal mio studio, in piedi nel vento, sotto la pioggia, le braccia spalancate come se volesse abbracciare le forze purificatrici degli elementi. Di notte lavora. L'ho spiato. È così assorto che non si accorge di nulla. Talvolta lavora nudo, anche se fa molto freddo. Ogni tanto si lascia letteralmente cadere sul pavimento, esausto. Ha completato un quarto nudo: P. inginocchiata. È fenomenale. Meravigliosa, misteriosa semplicità della forma, ma con la stessa qualità che contraddistingue i primi tre: la gioia e il pericolo del frutto proibito.
28 dicembre 1960, Tangeri
È una notte gelida, forse la più fredda da quando sono a Tangeri, il vento soffia da nord-ovest portando il gelo dell'Atlantico. Percorro a piedi le vie della città silenziosa. Nemmeno un cane randagio in giro. È una lunga camminata fino allo studio di T. C, e impiego più di un'ora per arrivare. Non penso, ma scavalco subito il muro nel mio solito punto (ne ho trovato uno dove atterro su un sentiero, senza lasciare orme nella terra smossa). Vado nella camera da letto e dal rumore dei passi capisco che sta lavorando. Entro nella luce dello studio, caldo grazie alla stufa a legna in un angolo. T.C. continua a lavorare, voltandomi le spalle. Mi avvicino, vedo i muscoli tesi sotto l'abito, mi fermo vicinissimo a lui e ancora non si accorge di niente. Le pennellate sono spesse, carnose. Gli respiro sul collo e lui si immobilizza, solido come pietra. Non si volta. Non riesce a voltarsi.
«Sono io», dico.
Si gira. Gli occhi cercano i miei per tentare di ragionare, poi, vedendo che è inutile, per chiedere pietà. Non ho nessun bisogno, né desiderio, di discutere e la mia mano è un lampo che gli taglia la gola con una forza così brutale che si ode una specie di schianto. Pennello e tavolozza gli sfuggono di mano, cade in ginocchio, lo sento tentare disperatamente di respirare attraverso la laringe sfracellata. Mi porto alle sue spalle e gli premo la mano sulla bocca e sul naso. Le forze lo hanno abbandonato completamente a causa della violenza del mio colpo. Solo quando la morte gli invade la mente l'istinto di conservazione restituisce energia al suo braccio, ma è di gran lunga troppo tardi. Lo immobilizzo e spengo l'ultima fiammella di vita. Lo depongo a faccia in giù sul pavimento, prendo i quattro nudi, li stacco dai loro telai, li arrotolo e li appoggio alla parete accanto alla porta. Prendo una latta di acquaragia e la verso sul pavimento e sul corpo inerte di T.C. Trovo anche alcol e trementina. Butto un fiammifero acceso nella stanza ed esco. Torno a piedi allo studio, nascondo il rotolo di tele dietro una trave sopra il mio letto. Mi sdraio. Ho portato a termine il mio compito e il sonno mi prende con facilità.
Javier vuotò il bicchiere. Mentre la gravità di ciò che stava leggendo si sprigionava dalla pagina per riempire tutta la stanza del suo orrore cancrenoso aveva continuato a versarsi il liquore e, a quel punto, era ubriaco. Il senso di trionfo lo aveva abbandonato, aveva la sensazione che le sue guance di gomma fossero state ripetutamente schiaffeggiate, i piedi erano nascosti dai fogli caduti dalla mano sempre più debole. La testa gli ciondolava sulla spalla. Istintivamente raddrizzò il collo, respingendo il sonno e quanto nel sonno lo aspettava, ma ben presto rinunciò a ogni resistenza, lo sfinimento ebbe la meglio, mente e corpo furono messi fuori gioco.
Sognò se stesso addormentato, non da adulto, ma da bambino. Sentiva la schiena calda, era al sicuro sotto la zanzariera e, nel dormiveglia, sapeva che era il sole a scaldarlo e che accanto alla sua testa, sulla parete, poteva vedere attraverso le palpebre abbassate il piccolo cratere che aveva grattato nella parete imbiancata. Sentì divincolarsi nel suo corpo la felicità infantile che gli saliva dalle viscere nell'udire sua madre che lo chiamava: «Javier! Javier! Despiértate ahora, Javier!»
Si svegliò immediatamente, perché era certo che la mamma sarebbe stata lì nella stanza e che sarebbe stato felice e amato.
Ma lei non c'era. Quello che c'era si agitò per un attimo davanti a lui finché la vista non gli si schiarì. Era nel suo studio, seduto su una delle sedie dallo schienale alto della sala da pranzo, e non poteva muoversi perché qualcosa gli stava segando il collo, i polsi e le caviglie. I piedi erano nudi e freddi sulle piastrelle del pavimento.
XXXIII
Lunedì 30 aprile 2001, casa di Falcón, calle Bailén, Siviglia
Non c'era nulla sulla scrivania di fronte a lui. I quadri erano stati tolti dalla parete.
«Sei sveglio, Javier?» domandò una voce alle sue spalle.
«Sono sveglio.»
«Se cerchi di gridare sarò costretto a imbavagliarti con i tuoi calzini, quindi, per favore, sii ragionevole.»
«Non riuscirei più a gridare ormai.»
«Davvero?» disse la voce. «Vedo che hai letto. Lo hai finito?»
«Sì.»
«E che cosa pensi del grande Francisco Falcón e del suo affidabile gallerista, Ramón Salgado?»
«Che cosa ti aspetti che pensi?»
«Dimmelo. Mi piacerebbe sentirlo.»
«Avevo appena cominciato a ritenerlo un mostro… avevo trovato quei cinque terribili dipinti nel suo studio… e ora… ora lo so. Non sapevo, però, che fosse anche un impostore. Questo aggiunge… o meglio, toglie la dimensione definitiva. È un mostro e basta, non rimane nient'altro.»
«La gente perdona molte cose alle persone di genio», disse la voce. «Tuo padre lo sapeva. Oggi puoi violentare e uccidere, ma se sei un genio saranno indulgenti con te. E perché credi che tolleriamo il male in qualcuno che ha ricevuto il talento da Dio? Perché sopportiamo l'arroganza e i modi rozzi di un grande goleador? Perché accettiamo l'ubriachezza e l'adulterio in uno scrittore, purché ci doni le sue poesie? Perché siamo disposti a stuprare, mutilare, ammazzare per qualcuno che ci dà l'illusione di credere in noi stessi? Perché permettiamo al genio di sfuggire al castigo?»
«Perché ci annoiamo facilmente», rispose Javier.
«Tuo padre aveva ragione, tu vedi le cose in modo diverso.»
«Quando te l'ha detto?»
«È scritto da qualche parte in quei diari.»
«In verità mi diceva sempre che io avevo avuto la benedizione della normalità.»
«Diceva così perché sospettava qualcosa.»
«Che cosa?»
«Non è questo l'ordine giusto», affermò Sergio.
«Allora dimmi tu qual è.»
«Che genere di mostro pensi fosse tuo padre? Quanto terribile?» domandò la voce. «Per ora sappiamo che era un assassino, un pirata, un edonista depravato, un impostore e un ladro, ma il mondo è pieno di gente così, sono mostri molto comuni, direi. Che cosa rende straordinario un mostro?»
«Mio padre era un individuo carismatico. Aveva fascino e spirito, era intelligente…»
«Non si può certo andare in giro con le labbra gocciolanti di sangue», disse Sergio. «Bisogna per forza avere due facce o la società ci sistema subito.»