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Javier rabbrividì al pensiero della raffinatezza di quella tortura. Al pensiero di quei due uomini che avevano dovuto affrontare il doppio orrore del taglio chirurgico e degli ultimi momenti di vera felicità crudelmente sfigurati dal montaggio sonoro.

«E a me? Che cosa mi farai vedere?» domandò. La paura stava scatenando la rabbia di Javier, che si sforzava di ricordare l'ultima volta in cui era stato felice. «Quale felicità ho abbandonato io?»

«Ti benderò per qualche momento», disse la voce. «Quando ti toglierò la mascherina, vedrai.»

Un elastico sulla nuca, poi la morbida oscurità ovattata. Era piacevole quel buio vellutato, trapuntato. Javier pensò che non avrebbe mai più dovuto uscire da quella tenebra. Qualcosa venne posato sulla scrivania, la sedia fu spostata in avanti, l'adrenalina cominciò a fluire nel suo organismo. Il panico assoluto dentro di lui si assottigliò, gli scorse nel sangue, raffreddandolo, sangue simile a etere ora. Javier era gelato e tremante. Delle dita gli sfilarono la maschera ma Falcón tenne gli occhi chiusi.

«Apri gli occhi, Javier», disse la voce. «Tu, meglio degli altri, sai che cosa succederà se non li aprirai. Davvero, non è niente di terribile.»

«Li aprirò. Concedimi solo un po' di tempo.»

«È una cosa che vedi tutti i giorni.»

«Lo sai che non è per la cosa sulla scrivania, è per la cosa nella mia testa», ribatté Javier.

«Apri gli occhi.»

«Sì.»

«Il tempo si sta esaurendo.»

«Li aprirò.»

«Ti costringerò ad aprirli. Lo sai come te li farò aprire, lo sai come faccio.»

Javier si sentì stringere e piegare all'indietro la testa nella morsa di un gomito piegato, il collo teso al punto da non riuscire a gridare. Avvertì il tocco della lama. Era come ghiaccio. La bruciatura fredda di un metallo insensibile. Qualcosa di caldo gli gocciolò sulla guancia, più denso del sudore o delle lacrime. Spalancò gli occhi mentre la sua testa si piegava in avanti.

Sul tavolo era posato un bicchiere di latte. Si ritrasse immediatamente, ma troppo tardi, l'immagine gli si era infilata nel cervello come una scheggia di vetro. Non aveva idea del perché fosse così spaventato, non vi era nessuna logica nei lampi di paura che pulsavano da sinapsi a sinapsi, da nervo a nervo, finché tutto il suo corpo fu scosso da spasmi tali da far traballare la sedia.

La benda gli ricadde sugli occhi, chiudendo fuori la ridicola realtà di un bicchiere di latte. Una mano gli sfiorò i capelli mentre un corpo si sporgeva sopra di lui.

«Fiutalo.»

Javier inspirò una boccata di un odore nauseabondo, greve, dolciastro, mentre un sapore di uova marce gli impregnava la saliva e il sudore freddo lo bagnava in tutto il corpo. Vomitò.

L'odore fu allontanato, il bicchiere di nuovo posato sulla scrivania. L'uomo riprese la posizione alle sue spalle.

«Sapevo che saresti stato coraggioso», disse la voce.

«Non mi sento coraggioso», balbettò Javier, tossendo e ansimando.

«Quale odore hai sentito?» domandò la voce.

«Mandorle e latte. Come fai a sapere che odio le mandorle e il latte?»

«Chi era abituato a bere latte di mandorle tutte le sere prima di dormire?»

«Mia madre, credo.»

«Tu sai che era tua madre», disse la voce. «Chi le portava il bicchiere di latte di mandorle tutte le sere?»

«La sua cameriera…»

«No, lei lo preparava. Chi lo portava a tua madre?»

«Io no», disse Javier in fretta, al modo di un bambino. La bugia istintiva. «Non ero io. Era Manuela.»

«Sai perché tuo padre ti odiava?»

Al colmo dell'infelicità, Javier lasciò ciondolare la testa, la scosse di qua e di là, negando, negando tutto ciò che affiorava nella mente.

«Perché tuo padre ha fatto in modo che tu lo amassi?»

«Non capisco, non ti capisco più.»

«Calmati ora, Javier. Ti leggerò una storia, proprio come faceva tuo padre per farti addormentare. Che storia abbiamo stasera? Sì, stasera sarà questa: 'Una piccola storia di dolore che diverrà il tuo'.»

3 gennaio 1961, Tangeri

Per sei giorni, sedendomi di fronte a P. ho osservato il suo viso farsi terreo. Solo i bambini riescono a ridarle un po' di vita. Le chiedo che cosa abbia e lei mi risponde sempre nello stesso modo: «Nada, nada». Passo davanti al laboratorio di T.C. I muri sono intatti, la porta è bruciata e il tetto è crollato. Sento dire al caffè frequentato da T.C. che non ci sarà un'inchiesta. È stato un tragico incidente. P. ha cominciato ad andare a messa regolarmente. Io guardo il mare con il binocolo. È piatto e grigio come l'acciaio. La spiaggia è vuota. Osservo i gabbiani tuffarsi.

12 gennaio 1961, Tangeri

Javier compie cinque anni e diamo una festicciola per lui. P. è piena di vitalità per tutto il tempo del ricevimento e io sono stupefatto dalla sua bravura. Sono la stella del pomeriggio come mostro degli abissi marini. Sciami di bambini scappano via da me strillando, ogni tanto ne acchiappo uno e divoro con gran gusto quel boccone di marmocchio che ride e si divincola… finché una bambina non si fa la pipì addosso. Fine del mostro. I bambini vanno a letto presto e P. e io ceniamo da soli nel nostro silenzio abituale. Perfino la servitù è come se camminasse sulle uova vicino a noi. Il pasto finisce, i domestici se ne vanno, rimaniamo soli. Sorseggio brandy e fumo. Faccio le mie solite osservazioni sul suo comportamento negli ultimi tempi e questa volta P. batte entrambi i pugni sul tavolo. Sembra una fucilata. Mi scruta in faccia, sporgendosi verso di me.

P.: So che sei stato tu.

Io: Come?

P.: So che sei tu il responsabile.

Io: Di che?

P.: Della sua morte.

Io: Morte di chi?

P.: Sei freddo come i paesaggi che dipingevi una volta, quelle distese desolate. Tu non hai cuore, Francisco Falcón. Sei vuoto, sei freddo e sei un assassino.

Io: Ti ho già confessato il mio passato.

P.: Oh, che Dio mi perdoni, avrei dovuto ascoltarti più attentamente, avrei dovuto dare retta a mio padre, non avrei mai dovuto lasciarmi toccare da quelle tue mani di ghiaccio. Sei un essere brutale, sei veramente un mostro. Oggi mi si è gelato il sangue nelle vene nel vederti con i bambini, perché tu sei davvero così, tu sei…

Io: Di che stai parlando, Pilar?

P.: Te lo dirò in faccia, se vuoi.

Io: Voglio.

P.: Tu hai assassinato Tariq Chefchaouni.

lo: Chi?

La stanza quasi non riesce a contenere il suo disprezzo.

P.: Tu sai che non sono una stupida. Quando mi hai dato quell'anello, quando mi hai regalato la statuetta… non pensavi che avrei capito benissimo che cosa avevi in mente? Ma questo non mi ha fermata, Francisco. Non mi avrebbe mai potuto fermare, impedendomi di godere dell'autentica passione di un uomo dotato di più genio in un solo capello di quanto tu ne abbia mai avuto in tutta la tua anima inesistente.

Le parole si abbattono su di me come randellate, ognuna su un organo vitale o su un'articolazione importante.

P.: Perciò, Francisco, dimmi, perché lo hai ammazzato? Non posso credere che tu lo abbia fatto perché mi… scopava. O è per questo? L'hai fatto perché dava piacere a tua moglie mentre tu ti sollazzavi con quella ricca sgualdrina o sodomizzavi giovanetti con i tuoi compari del bar La Mar Chica? È stato per questo? Quando abbiamo fatto l'amore l'ultima volta noi due? Ma l'abbiamo mai fatto, poi?