Io: Ora stai esagerando, Pilar.
P.: Trovi che io stia esagerando? Guarda che è la madre dei tuoi figli che parla, che ti dice chi sei. Tu sei infedele. Tu sei sodomita. Prova a negarlo!
Io: Non puoi parlarmi in questo modo!
P.: Sì, invece! Ti dico, Francisco, che verrà tutto a galla, tutto… perfino il fatto che la notte di nozze te ne sei andato in giro a sodomizzare ragazzi in compagnia di quell'individuo rivoltante… non riesco nemmeno a pronunciarne il nome.
Io: Chi te lo ha detto?
P.: Io sento tutto. Mi viene riportato tutto. Io so tutto, Francisco, perfino il motivo per cui mi hai sposato, tu, un bruto dal cuore gelido.
Io: Perché ti ho sposato?
P.: Perché pensavi che avrei potuto far scaturire il tuo genio, che con me avrebbe potuto scorrere come un fiume. Ma il genio, Francisco, e un dono di Dio. Ti è stato offerto. Lo hai intravisto per un attimo. Lo hai preso. E che cosa ne hai fatto? Lo hai venduto. E per questo motivo Dio non è più tornato. Ha riconosciuto in te la puta che sei.
Io: Basta! Sta' zitta! Zitta!
P.: No, no, no que no! È finita, Francisco Falcón. Dovrai starmi a sentire fino in fondo. Ti era stata data la vista. Ti era stata donata una vista speciale, ti era stato concesso di vedere l'anima delle cose e tu l'hai trattata come se fosse denaro. Quando sono tornata da te, oh, eri così patetico! Così riconoscente! Era tornata la tua musa. E di nuovo hai chiesto il dono della vista, ma essendo l'uomo che sei, non hai potuto penetrare all'interno, hai potuto vedere solo la superficie. E tutti possono imparare a dipingere la superficie. La medina viene imbiancata tutti i giorni.
Io: Questo non lo sopporto.
P.: Non sopportarlo, allora. Ma ammetti, almeno con te stesso, se non vuoi farlo con me, che la ragione per cui hai ammazzato Fariq Chefchaouni e distrutto le sue opere…
Io: Taci, Pilar!
P.: … è che lui, un povero ragazzo arabo del Rif stava riuscendo là dove tu avevi fallito. È quasi diventato pazzo dalla rabbia quando ha saputo che suo padre aveva venduto la sua statuetta, si è calmato soltanto sapendo che l'avevo io. Le sue opere non erano in vendita. Erano qualcosa tra lui e il suo Creatore. Questo era il suo principio, la sua morale. Non si vende la vista al maggior offerente.
Mi alzo su gambe che non mi reggono, tutta la mia forza si concentra in un unico centro di furia, sono un vulcano in procinto di eruttare. Devo appoggiarmi al tavolo con entrambe le mani per riuscire a controllarmi. Lei si sporge verso di me, le nostre facce sono vicine e io vedo il biancore duro, tagliente dei suoi denti. Gli occhi mi urlano contro, lanciano fiamme verdi.
Io: E che cosa ci faceva la sua statuetta nella vetrina di una bottega?
P.: Nessuno di noi è totalmente privo di vanità, ma soltanto pochi ne sono assolutamente consumati.
La colpisco. Un manrovescio così violento da farla volare in fondo alla stanza, mandandola a sbattere contro la parete: cade come un insetto intontito, striscia per terra disorientata, rintanandosi in un angolo, e rimane là seduta finché si riprende. Le ossa della mia mano scrocchiano. Sono una furia pronta a uccidere, ma qualcosa mi trattiene. P. si rimette in piedi a fatica appoggiandosi alla parete bianca e qualche frammento di intonaco si stacca. Batte le palpebre, scuote la testa. È decisa a tutto.
P.: Ho ancora un osso da gettare a quella bestia famelica che hai nella testa. Dovresti sapere che hai assassinato il padre del mio figlio minore e che non sarai mai perdonato.
Lascia la stanza. Il mio cervello furibondo fatica a decifrare le parole complesse, ogni lettera delle quali sembra acuminata come una X, una fila di X che mi stringono il petto come filo spinato. Devo mettermi a sedere. Sono in un parossismo di angoscia, mi sento il cuore contratto, afferrato da un crampo. Attraverso l'ululato stupefacente che mi invade la testa, mi giunge il rumore dei suoi passi che si allontanano sulle piastrelle dei corridoi. Una porta si chiude. Scatta un chiavistello. Voglio chiamarla, farla tornare qui perché mi salvi, ma sono solo con qualcosa di terribile che avviene dentro di me, qualcosa che non sono sicuro di poter contenere nella cassa toracica. Strizzo le palpebre in una smorfia prolungata di agonia, singhiozzo e con il singhiozzo mi esce un rutto stentoreo che riempie la stanza del puzzo di chorizo rancido. Il sollievo è immediato. La morte si allontana, esco di casa e vado a dormire allo studio. Mi sveglio l'indomani mattina con la mente sgombra e scrivo queste righe come se tutto fosse stato un sogno fastidioso. Non credo a ciò che mi ha detto di Javier. Si tratta di rancore rabbioso, unica difesa contro la mia violenza spontanea.
13 gennaio 1961, Tangeri
Torno a casa nel pomeriggio. Non appena apro la porta sento odore di bruciato, o meglio, di un fuoco spento. C'è una macchia nera nel patio e il vento solleva neri frammenti leggeri che roteano e svolazzano come insetti senza via d'uscita. Mi muovo in quel mondo di falene, di pagliuzze nere che mi si appiccicano alla faccia, fredda ma sudata. Non capisco come si sia potuto incendiare qualcosa qui, poi scorgo un pezzetto di carta, i bordi ormai consumati e neri, lo giro e vedo i resti di una linea tracciata con il carboncino. Vado nella stanza che un tempo era il mio studio, mi fermo davanti al mobile con il cassetto in basso aperto. I sette disegni rimasti di P. sono scomparsi.
Come una furia mi precipito verso la sua camera. È chiusa a chiave, la butto giù con una spallata. La stanza è vuota. Afferro la piccola scultura in osso e vado dritto al mio studio sulla baia, prendo due martelli e salgo sulla terrazza del tetto dove comincio a fracassarla, un martello nella destra e uno nella sinistra. Raccolgo i frammenti e, con energia folle, ossessiva, li pesto nel mortaio. Metto in un sacchetto di carta la polvere d'osso e vado in una bottega di brutti oggetti per turisti dove compro una semplice urna di terracotta. Verso la polvere d'osso nell'urna, torno a casa e la poso sulla toletta.
18 gennaio 1961, Tangeri
Nessuno dei due ha detto niente. La chiazza nera nel patio è sparita. Non so dove sia l'urna: per qualche giorno è rimasta sulla toletta, poi è scomparsa. Ci aggiriamo l'uno intorno all'altra come se fossimo al centro di un impero in rovina, come l'imperatore e l'imperatrice, ognuno con un suo piano per strappare il potere all'altro mentre la rovina è alle porte. Sappiamo che cosa sta per accadere, il sospetto è in agguato nei corridoi, cerchiamo la compagnia reciproca che aborriamo, ma di cui non possiamo fare a meno per controllarci a vicenda. P. accetta solo bevande e cibo preparato dalla sua cameriera del Rif io fingo indifferenza, ma consumo i miei pasti al ristorante del Grand Hôtel Villa de France. Osservo le sue abitudini di vita e aspetto. So di una storia dell'antica Roma, una storia su un uomo e una donna nella stessa nostra situazione. La moglie aveva notato che il marito mangiava i fichi dall'albero. Allora li aveva spennellati con il veleno ed era rimasta a guardare mentre l'uomo moriva. Non siamo nella stagione dei fichi.
25 gennaio 1961, Tangeri
Sono nello studio. Ho impiegato tutto il giorno per trovare questo involtino di carta che ora è davanti a me. Fumo e lo liscio. Palpo le due capsule di cianuro regalatemi dal legionario che avevo salvato dalla galera. Le annuso. Niente. Dai recessi della mia mente affiora il ricordo che il cianuro ha odore di mandorle.