2 febbraio 1961, Tangeri
P. va a letto prima del solito in questi giorni e ora la donna del Rif chiama i bambini perché le portino il latte di mandorle caldo. Paco e Manuela invariabilmente mandano Javier, che è felice di eseguire il compito affidatogli. Lo osservo dal patio. P. posa il bicchiere di latte sul comodino e bacia e abbraccia Javier prima di mandarlo a letto, poi beve il latte e spegne la luce.
Mi domando se sia ciò che voglio. Essere un uxoricida. Non ho nessuna morale? La questione non mi pare pertinente, la pressione che mi schiaccia arriva da un'altra parte, le notti diventano interminabili e i miei pensieri indugiano più a lungo nel buio solitario. Sto sdraiato al centro del mio studio, la zanzariera fissata sopra la testa e nella mente mi compare un'immagine di quei primi giorni in Russia. Vedo nel mirino la donna che ha tradito Pablito, il seno ansimante al centro. Sposto la mira e, al comando, le sparo in bocca. La mandibola è sfracellata. Ho la mia risposta.
5 febbraio 1961, Tangeri
Siedo nel patio sotto il fico. Ho entrambe la capsule in mano, le rigiro sul palmo. Non sono consumato dall'odio, ma mosso dall'inevitabilità. Siamo al punto cruciale, non c'è modo di cambiare ciò che avverrà.
Odo la donna del Rif chiamare e pochi momenti dopo lo scalpiccio dei piedi nudi di Javier sulle piastrelle di terracotta. Mi apposto in una delle stanze del corridoio che porta alla camera di P. Sento avvicinarsi il fruscio del pigiama di Javier.
Di nuovo gli parve che la voce di Sergio si allontanasse mentre le parole continuavano inesorabilmente a precipitare su di lui. Javier si sta guardando i piedi nudi sul pavimento, il bicchiere di latte di mandorle tenuto alto fino al mento. Si morde il labbro concentrato al massimo, non vuole versarne nemmeno una goccia, e ha un soprassalto nel vedere suo padre comparirgli accanto all'altezza della spalla. La faccia grande è emersa dal buio così all'improvviso che per poco Javier non fa cadere il bicchiere, ma, grazie a Dio, suo padre glielo toglie di mano.
«Sono solo io», dice il papà e, spalancando gli occhi in modo esagerato, si stropiccia le dita sopra il bicchiere, dicendo: «Abracadabra».
Rimette il bicchiere in mano a Javier.
«Va tutto bene», dice, baciandolo sulla testa. «Va', portaglielo. Non versarlo.»
Javier stringe il bicchiere, suo padre gli batte qualche colpetto sulla spalla e di nuovo i suoi piedi si muovono sulle piastrelle di terracotta, il contorno di ogni avvallamento e di ogni linea di giunzione impresso nella pianta nuda. Raggiunge la porta, posa il bicchiere sul pavimento; gli occorrono due mani per girare la maniglia. Raccoglie il bicchiere, entra. Sua madre alza gli occhi dal libro, lui richiude la porta con la schiena, arretrando finché non sente lo scatto della serratura. Posa il bicchiere sul comodino e si arrampica sul letto, la mamma lo abbraccia forte e per un momento il bambino Javier si perde nella morbidezza della sua camicia da notte. Sente la mano di sua madre, la mano senza anelli, posarsi sul suo piccolo ventre piatto, fargli il solletico. Sente il suo calore, l'odore di lei nel tessuto di cotone mentre la mamma lo stringe forte, schiacciandogli le costole contro le sue, e gli dà un ultimo bacio pieno di trasporto sulla fronte, un bacio che lo segna per sempre con il suo amore.
Javier si immobilizzò sulla sedia tornando alla buia realtà della mascherina. I cavi lo stringevano ancora, la palpebra bruciava ancora in un angolo, il velluto della maschera era inzuppato di lacrime e la voce alle sue spalle continuava a far rotolare le ultime parole del diario di suo padre.
Qualche momento dopo Javier mi passa di nuovo davanti correndo diretto in camera sua. Vado alla finestra e guardo attraverso le fessure dell'imposta. P. ha in mano il bicchiere e beve un sorso. Lo posa sul comodino. Non fa in tempo a girarsi che il cianuro agisce. Sono impressionato dalla velocità del suo effetto. È rapido come il sangue stesso. P. si scuote tutta, si porta le mani al collo e ricade sul guanciale. La donna del Rif va nella camera dei bambini e la luce si spegne. Poco dopo si ritira nella sua stanza. Entro nella camera di P. e porto via il bicchiere, lo lavo accuratamente in cucina e lo riempio a metà con il latte di mandorle che ho preparato in precedenza nel mio studio. Rimetto il bicchiere sul comodino di P. e spengo la luce. Torno nello studio per annotare tutto questo. Bisogna che dorma ora, perché domani dovrò alzarmi presto.
Sergio aveva finito e nella casa regnava il silenzio. Le lacrime di Javier, che avevano inzuppato la mascherina mescolate al sangue del taglio sulla palpebra, ora gli rigavano le guance. Si sentiva prosciugato. Dietro di sé avvertì un movimento, un panno gli si chiuse sul naso e sulla bocca e un odore acre di qualche sostanza chimica disgustosa come l'ammoniaca gli scaraventò il cervello in un'altra galassia priva di suoni.
XXXIV
Lunedì 30 aprile 2001, casa di Falcón, calle Bailén, Siviglia
Fu un momento di respiro. Il cervello cloroformizzato volteggiò nello spazio in silenzio. Il ritorno alla realtà fu frammentario: brandelli di audio, poi schegge di video. La testa si rialzò, la stanza ondeggiò, lame di luce colpirono gli occhi e Javier fu risvegliato bruscamente dal terrore che gli fosse stato fatto qualcosa di terribile.
Poteva vedere e le palpebre si sollevavano e si abbassavano ancora. Il sollievo si diffuse in tutto il suo essere. Tossì. Il cavo non gli serrava più il viso e i piedi erano liberi dalle gambe della sedia, ma i polsi vi erano ancora legati. Si orientò nella stanza. Non era più rivolto verso la scrivania ora. Si piegò in avanti, cercando di inghiottire il groppo che gli si stava agitando nel petto e gli saliva in gola. Singhiozzò, lottando contro i ricordi, ogni certezza in frantumi. Esisteva una possibilità di sopravvivere a tutto ciò?
Un rumore. Rotelle sul pavimento. Qualcosa che gli stava passando troppo vicino, un soffio d'aria. Un uomo — Sergio, o Julio ormai? — gli sfrecciò accanto fino alla parete di fronte sulla poltrona girevole della scrivania.
«Sveglio?» domandò, scostandosi dal muro e portando la poltrona vicino a lui, una vicinanza che gli provocò un attacco di nausea.
Julio Menéndez Chefchaouni si distese sulla sedia, rilassato. La prima impressione di Falcón fu di bellezza. L'aspetto era quasi femmineo, lo fece pensare alla star di un gruppo musicale, con i lunghi capelli scuri, i dolci occhi castani, le ciglia lunghe, gli zigomi alti e la pelle chiara, liscia. La specie di viso che un obiettivo avrebbe potuto amare; ma solo per un momento.
«Ecco, Inspector Jefe», disse il giovane, incorniciandosi la faccia con le mani. «Ecco la faccia del male assoluto.»
«Non hai ancora finito?» domandò Falcón. «Che altro può esserci, Julio?»
«Ritengo che il progetto abbia bisogno… non proprio di un finale perché non credo nei finali, e nemmeno nei principi o nelle metà, se è per questo, ma di far conoscere il suo scopo.»
«Il progetto?»
«Come credo abbia scritto tuo padre nei suoi diari: 'Nessuno dipinge più'. Imbrattare tele non è molto dissimile da quanto facevano gli uomini della caverne. Ceci n'est pas un pipe, sai, e cose del genere. L'arte oggi è tutta progresso, non è così? Non possiamo stare fermi, dobbiamo continuamente mostrare al pubblico cose nuove o far vedere che si può vedere il vecchio in modo nuovo. Equivalent VIII di Carl André, gli squali e le vacche in salamoia di Damien Hirst. Quei veri cadaveri plastificati di Body Worlds di Gunther von Hagen. E ora Julio Menéndez.»