Falcón interruppe Pérez e gli disse di venire a Los Remedios prima possibile per controllare gli appartamenti del condominio, mostrando le immagini stampate delle persone non identificate riprese dalle telecamere. Occorreva anche dare un nome alla prostituta e trovarla. Riattaccò e vide che il Médico Forense gli aveva inoltrato un messaggio per informarlo che l'autopsia era stata completata e il rapporto scritto era quasi pronto. Rifletté per un attimo se fosse il caso di lasciare che Consuelo Jiménez vedesse il cadavere in tutto il suo orrore, poi decise che sarebbe stato meglio mantenere l'asportazione delle palpebre un fatto riservato. Richiamò il Médico Forense e gli chiese di rendere il cadavere pulito e presentabile.
Si avviò per andare a prendere Consuelo Jiménez a casa della sorella a San Bernardo e mentre scendeva per dirigersi alla sua auto chiamò Fernández e gli disse di mettersi in contatto con Pérez per controllare insieme gli appartamenti.
Dopo la penombra della casa la luce sulla strada sembrava accecante e l'aria quasi calda. Era sempre così per la Semana Santa e la Feria, un periodo tra i più incerti dell'anno, né caldo, né freddo, né asciutto, né umido. Né religioso, né laico. Salì in macchina e gettò il fascio di fotografie sul sedile, in cima quella di Gumersinda, la prima moglie di Raúl. Era un vero e proprio ritratto in cui la donna fissava intensamente l'obiettivo, ma furono le parole di Consuelo Jiménez a tornargli alla mente: «Non è assolutamente riuscito ad amarmi».
Due pensieri bizzarri si scontrarono nella sua mente, pompandogli adrenalina nell'organismo, tanto che mise in moto e uscì dal parcheggio senza badare a ciò che faceva. Uno stridere di pneumatici. Un grido soffocato di «Cabrón!»
Eseguì l'inversione e attraversò il fiume sul puente del Generalísimo. I binari dello scalo ferroviario scorrevano sotto di lui e le gru formavano una guardia d'onore fino al massiccio puente del V Centenario che si ergeva al di sopra della foschia urbana. I suoi pensieri si sbrigliarono mentre si dirigeva a nord-est al di là del parque de Maria Luisa e provò un desiderio disperato della sigaretta che aveva lasciato a consumarsi nello studio di Raúl Jiménez. Erano state le parole di sua moglie, Inés, a tornargli alla mente, Inés che lui non era riuscito ad amare. Come Raúl. «Tu non hai cuore, Javier Falcón», e le parole si mescolavano all'immagine di Gumersinda, una donna di un'altra epoca, che aveva suscitato il ricordo di sua madre, Pilar, e della sua matrigna, Mercedes. Inés, Pilar, Mercedes, tre donne immensamente importanti per lui, verso le quali sentiva ora di avere, in certo modo, fallito.
Un'idea così nuova e strana che gli fece desiderare spasmodicamente di gettarsi come un pazzo nel lavoro e dimenticare.
Al semaforo si fermò tamburellando sul volante, borbottando: «Questa è follia», perché non era possibile che gli stesse accadendo una cosa del genere, lui non aveva mai pensieri incontrollati, inesplicabili, non era per natura portato a sognare a occhi aperti. Era sempre stato calmo e metodico, caratteristiche che ora non gli appartenevano più. Dal momento in cui aveva visto il volto torturato di Raúl, si era prodotto in lui una specie di cataclisma, non diverso da una mutazione genetica. La sua mente era ormai inondata di ricordi disturbanti, il sudore gli imperlava la fronte e gii inumidiva le mani, la sua capacità di concentrazione era svanita. Non riusciva nemmeno a seguire le indagini. Non aveva controllato le finestre e le porte che davano sul balcone dell'appartamento di Jiménez. La prima cosa da fare. E la faccenda del televisore, strappare il filo dalla presa a muro e non farne menzione. Non era da professionista. Non era da lui.
Seguì la calle Balbino Murrón fino alla fine, raggiungendo un edificio che si affacciava sul campo da calcio del Colegio de los Jesuitas. Ripose le foto nel vano portaoggetti. Consuelo Jiménez uscì prima ancora che Falcón avesse raggiunto la casa. Alla finestra vide un bambino, forse il più piccolo. La donna lo salutò con la mano e lui rispose agitando freneticamente la sua. Falcón ne fu rattristato. Rivide se stesso alla finestra, lasciato indietro.
Si avviarono, tagliando attraverso le arterie di scorrimento che portavano al centro della città. Consuelo Jiménez guardava fisso davanti a sé, senza vedere quasi nulla al di là del vetro.
«L'ha già detto ai suoi figli?» domandò Falcón.
«No. Non volevo farlo e poi lasciarli per andare all'ospedale.»
«Devono aver capito che è successo qualcosa.»
«Si sono accorti che sono nervosa. Non sanno perché siamo dalla zia, continuano a chiedermi come mai non andiamo nella casa di Heliópolis e quando verrà il papà con il regalo che ha promesso.»
«Il cane?»
«Lei sa come produrre una certa impressione sulle persone, Inspector Jefe», osservò la donna. «Non ha figli, vero?»
«No…» rispose Falcón, pur nutrendo il desiderio di completare in qualche modo la risposta.
Continuarono in silenzio, diretti a nord verso La Macarena.
«Come stanno andando le indagini?»
«È ancora presto.»
«Così lei ha soltanto il movente più ovvio su cui lavorare.»
«E cioè?»
«Moglie vuole liberarsi di marito più anziano che non l'ama, ereditare il suo patrimonio e involarsi con giovane amante.»
«Molti hanno ucciso per meno.»
«Sono stata io a fornirle quel movente. Nessuno potrebbe mai dirle che Raúl Jiménez non mi amava.»
«Nemmeno Basilio Lucena?»
«Sa soltanto che Raúl era impotente e che io ho certe esigenze.»
«Sa dove si trovava ieri notte?»
«Ah, sì, certo. È l'amante a compiere il misfatto», disse la donna. «Ma conoscerà Basilio e poi mi dirà di che cosa lo ritiene capace.»
Passarono davanti alla basílica de La Macarena e pochi minuti dopo giunsero all'austero edificio grigio sull'avenida Sánchez Pizjuán che ospitava l'Instituto Anatómico Forense. Una folla era adunata davanti al portone. Falcón superò la sbarra dell'ospedale e parcheggiò l'auto. La signora Jiménez indossò un paio di occhiali da sole. La folla si precipitò verso di loro non appena scesero dalla macchina, i microfoni puntati. Parole staccate si elevavano al di sopra della cacofonia, laceranti come schegge di proiettile — marido, asesinado, brutalmente. Falcón la prese per un braccio e la spinse avanti, le fece superare la porta che richiuse con forza alle loro spalle.
La guidò lungo i corridoi fino all'ufficio del Médico Forense, che li condusse in una stanza vicina. Un addetto tirò indietro la tenda e al di là del pannello di vetro videro Raúl Jiménez disteso sotto un lenzuolo che gli lasciava scoperto il torace. Due candele erano accese ai lati della testa. Gli occhi, ripuliti dal sangue, fissavano il soffitto. Occhi vacui. La nuca, in precedenza una massa di sangue coagulato, era stata lavata, il naso miracolosamente riattaccato e la ferita prodotta dal cavo elettrico sulle guance era scomparsa. La vecchia cicatrice sul pettorale destro notata nella fotografia sembrava la peggiore che fosse mai stata inflitta a quel corpo. Consuelo Jiménez identificò formalmente il cadavere e la tenda scivolò davanti al corpo, celandolo alla vista. Falcón la pregò di aspettare mentre parlava brevemente con il Médico Forense, il quale lo informò che Raúl Jiménez era morto alle tre del mattino per emorragia cerebrale e collasso cardiaco. Nel suo sangue era stato trovato un alto livello di Viagra. La conclusione del medico era stata che l'aumentata pressione del sangue e l'elevato grado di sofferenza, uniti alle condizioni precarie delle arterie, avevano fatto sì che Raúl Jiménez, per così dire, scoppiasse dall'interno. Il medico consegnò a Falcón il rapporto scritto.