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Il nuovo, e giovanissimo, Juez de Guardia, il magistrato di servizio che lo aveva aspettato nell'ingresso ben tenuto, di marmo bianco, del grande e lussuoso appartamento di Raúl Jiménez al sesto piano dell'Edificio Presidente, aveva cercato di avvertirlo. Questo lo ricordava.

«Si prepari, Inspector Jefe», gli aveva detto il magistrato.

«A che cosa?» aveva domandato Falcón.

Nel silenzio imbarazzato che era seguito, l'ispettore capo Javier Falcón aveva studiato attentamente l'abito del Juez de Guardia. Di un sarto italiano, aveva pensato, o di un noto stilista spagnolo, qualcuno sul genere di Adolfo Domínguez, forse. Costoso per un magistrato giovane come Esteban Calderón, trentasei anni e nominato da appena un anno.

Vista l'apparente flemma di Falcón, Calderón aveva deciso di non apparire ingenuo di fronte al quarantacinquenne Inspector Jefe del Grupo de Homicidios de Sevilla, che vantava un'esperienza più che ventennale di gente assassinata a Barcellona, Saragozza, Madrid e, ora, anche a Siviglia.

«Lo vedrà», aveva detto, stringendosi nelle spalle con un gesto nervoso.

«Devo procedere, allora?» aveva domandato Falcón, attenendosi al protocollo poiché era la prima volta che lavoravano insieme.

Calderón aveva annuito e gli aveva detto che la Policía Científica se n'era appena andata: poteva procedere con il primo esame della scena del delitto.

Falcón aveva percorso il corridoio che portava dall'ingresso allo studio di Raúl Jiménez, cercando di prepararsi psicologicamente ma senza sapere come farlo. Davanti al soggiorno aveva aggrottato la fronte, perplesso: la stanza era completamente vuota. Si era girato verso Calderón che, in quel momento, gli voltava le spalle, intento a dettare qualcosa alla secretaria del Juez mentre il Médico Forense ascoltava. Falcón si era affacciato alla sala da pranzo e aveva trovato vuota anche quella.

«Stavano traslocando?» aveva domandato.

«Claro, Inspector Jefe», aveva risposto Calderón, «gli unici mobili rimasti nell'appartamento sono un letto nella camera di uno dei ragazzi e quelli dello studio del signor Jiménez.»

«Significa che la signora Jiménez si trova già nella nuova casa con i figli?»

«Non ne siamo sicuri.»

«Il mio assistente, l'Inspector Ramírez, sarà qui a minuti. Lo mandi subito da me.»

Falcón aveva continuato fino alla fine del corridoio, all'improvviso consapevole dell'eco prodotta da ogni passo sul parquet dell'appartamento vuoto, lo sguardo ipnotizzato da un gancio che spuntava dalla parete nuda all'estremità del corridoio. Sotto di esso un riquadro appariva più chiaro della superficie circostante, un dipinto o uno specchio tolto da poco. Falcón si era infilato i guanti da chirurgo, tirandoli su fino ai polsi e flettendo le dita, poi era entrato nello studio e, alzando lo sguardo, si era trovato davanti il viso orripilante di Raúl Jiménez che lo fissava.

Era cominciato tutto allora.

E non perché avesse ripensato a quel momento rendendosi conto solo in seguito che aveva rappresentato una svolta. Il cambiamento non era stato così sottile. Dentro di lui era scattato qualcosa che si era fatto sentire immediatamente. Il sudore gli aveva bagnato le mani all'interno dei guanti ed era comparso in un punto della fronte, proprio sotto l'attaccatura dei capelli; il battito rumoroso del cuore lo aveva paralizzato e l'ossigeno nell'aria aveva cominciato a scarseggiare. Iperventilazione per qualche secondo, un pizzico sulla gola per agevolare l'inspirazione: il corpo gli stava comunicando che doveva avere paura, mentre il cervello lo rassicurava affermando che non ne aveva motivo.

Un cervello che ora stava procedendo alle consuete osservazioni spassionate tipiche dei poliziotti di fronte ai cadaveri. Falcón notò che i piedi di Raúl Jiménez erano nudi, le caviglie legate alle gambe della sedia, qualche mobile fuori posto in contrasto con il resto della stanza. I segni sul costoso tappeto persiano indicavano qual era stata l'abituale posizione della sedia. Il cavo del televisore era teso, perché il mobiletto con le ruote si trovava a qualche metro di distanza dalla presa nell'angolo. Per terra, accanto alla scrivania, un pezzo di stoffa arrotolato, forse un paio di calzini sporchi di saliva e di sangue. Le finestre con i doppi vetri erano chiuse, le tende tirate. Sulla scrivania un voluminoso posacenere di steatite zeppo di cicche e di filtri interi, puliti, tagliati dalle sigarette del pacchetto posato lì accanto, sigarette marca Celtas. Economiche. Le più economiche. Solo il prodotto meno costoso per Raúl Jiménez, proprietario di quattro fra i ristoranti più frequentati di Siviglia, nonché di altri due a Sanlúcar de Barrameda e a Puerto Santa María, sulla costa. Solo ciò che di più economico si poteva trovare per Raúl Jiménez, nel suo appartamento da novanta milioni di pesetas nel quartiere di Los Remedios, con la vista sulla zona della Feria e con le foto delle celebrità alla parete dietro la scrivania dagli intarsi in pelle. Raúl con il torero El Cordobés. Raúl con la presentatrice TV Ana Rosa Quintana. Raúl, mio Dio, Raúl con un coltello da cucina in mano dietro un jamón che doveva essere un Pata Negra di prima qualità, visto che accanto a lui c'erano Antonio Banderas e una Melanie Griffith dall'aria sgomenta, con quel piede di maiale puntato contro il suo seno destro.

Il sudore intanto non si era arrestato, anzi, stava comparendo altrove. Sul labbro superiore, sulle reni, gli scendeva dalle ascelle alla vita. Falcón sapeva ciò che stava facendo: stava fingendo, voleva convincersi che nella stanza facesse caldo, che il caffè appena preso… Non aveva preso nessun caffè.

La faccia.

Per un cadavere quella era una faccia viva. Come i santi di El Greco, con gli occhi che non ti lasciavano mai.

Lo stavano seguendo anche quelli?

Falcón si spostò di lato. Sì. Passò dall'altra parte. Assurdo. Uno scherzo della mente. Si riprese, strinse il pugno fasciato dal guanto di lattice.

Falcón scavalcò il cavo teso tra la parete e il televisore e passò dietro la sedia del morto. Diresse lo sguardo al soffitto, poi tornò a fissarlo sui capelli lanosi di Raúl Jiménez. La nuca era una matassa aggrovigliata nera e rossa, là dove aveva sbattuto ripetutamente contro lo stemma in rilievo sullo schienale. La testa era immobilizzata con un cavo elettrico che inizialmente doveva essere stato serrato con forza, ma che Jiménez, dibattendosi, aveva allentato. Il cavo era penetrato profondamente nella carne sotto le narici e aveva addirittura tagliato la cartilagine del setto, raggiungendo la parte ossea: il naso staccato pendeva sulla faccia. Il filo elettrico aveva lacerato anche la carne sugli zigomi, perché l'uomo doveva aver agitato selvaggiamente la testa.

Falcón distolse lo sguardo da quel profilo ma si ritrovò di fronte il riflesso dell'intero volto nello schermo spento. Sbatté le palpebre con l'impellente desiderio di chiudere quegli occhi, penetranti perfino nell'immagine sul televisore. Lo stomaco gli si rivoltò al pensiero delle visioni d'orrore che avevano costretto quell'uomo a fare a se stesso ciò che aveva fatto: erano forse ancora là, incise a fuoco nella retina o ancora più profondamente nel cervello come in un computer?

Scosse il capo, Falcón, non abituato a permettere che idee così bizzarre interferissero con la freddezza richiesta in un'indagine. Si spostò di nuovo per affrontare la faccia grondante sangue, non del tutto visibile da quella prospettiva, perché il mobiletto del televisore era a contatto con le ginocchia della vittima. A quel punto Javier Falcón dovette affrontare il primo cedimento fisico. Non gli si piegavano le ginocchia: nessun ordine neurologico riusciva a superare il panico che gli montava nel petto e nello stomaco. Fece ciò che gli aveva suggerito il Juez de Guardia e guardó fuori dalla finestra. Notò lo splendore della mattina di aprile, ricordò l'irrequietezza provata mentre si vestiva nella semioscurità delle persiane chiuse, lo strascico del disagio lasciato da un inverno lungo e solitario, con troppa pioggia. Tanta che perfino lui si era accorto che i giardini della città erano diventati lussureggianti e fitti come una foresta, con un rigoglio da esposizione botanica. Rivolse gli occhi sull'area della Feria che, di lì a due settimane, sarebbe stata trasformata in una Siviglia accampata, gremita di casetas, di padiglioni, per i sette giorni dedicati a mangiare, bere e ballare la sevillana fino all'alba. Trasse un profondo respiro e si chinò per fissare Raúl Jiménez in faccia.