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«Non era questa una delle cose di cui ti accusava Inés?»

«Hai pronunciato tu la parola proibita, non io.»

Manuela alzò lo sguardo, sorrise e si strinse nelle spalle. «Hai detto che speravi mi avessero pagato per il cane di quel poveretto e mi è sembrata una battuta un po' cinica, ecco tutto. Ma forse eri soltanto… flemmatico.»

«È stata una cosa di cattivo gusto», convenne Falcón, sorprendendosi a mentire subito dopo. «Non sapevo che il cane fosse un regalo per i figli.»

Alejandro inserì tra loro il profilo della sua superba mandibola e Manuela rise, senza nessuna ragione, se non che erano i primi tempi e lei voleva ancora far sentire il suo uomo contento di sé.

Parlarono di toros, l'unico argomento che lei e Alejandro avevano in comune: Manuela entusiasta del suo torero preferito, José Tomás, il quale, e questo era insolito per lei, non era uno dei famosi belli della plaza, ma un uomo che ammirava perché riusciva sempre a creare una certa tranquillità nella faena. Non era mai precipitoso, non strisciava mai i piedi, conduceva il toro con il centro della muleta, non con un lembo, in modo che l'animale passasse sempre pericolosamente vicino a lui, il più vicino possibile. Inevitabilmente veniva colpito e ogni volta si rialzava e tornava tranquillamente verso il toro.

«Una volta l'ho visto alla televisione, in Messico. Era stato incornato e il sangue gli scorreva lungo il polpaccio, era pallido e aveva l'aria sofferente ma era rimasto in piedi, aveva ritrovato l'equilibrio, aveva fatto allontanare i suoi uomini e si era avvicinato di nuovo al toro. Perdeva tanto sangue, si vedeva: a ogni passo gli sprizzava dalla scarpa. Poi ha puntato il toro e lo ha infilzato. L'hanno portato subito all'ospedale. Que hombre, que torero.»

«Vostro cugino Pepe», disse Alejandro, che aveva sentito quella storia già troppe volte, «Pepe Leal. Ha qualche possibilità per la Feria?»

«Non è nostro cugino», lo corresse Manuela, dimenticando per un momento il suo ruolo. «È figlio del fratello di nostra cognata.»

Alejandro scrollò le spalle. Voleva ingraziarsi Javier. Sapeva che Javier era il confidente di Pepe e che la mattina della corrida andava sulla plaza, quando il lavoro glielo consentiva, a scegliere il toro per il giovane torero.

«Quest'anno no», rispose Javier. «È andato molto bene a Olivenza in marzo, gli hanno dato un orecchio di ognuno dei suoi tori e lo hanno invitato per la Feria de San Juan a Badajoz, ma non pensano ancora che sia al livello della Feria de Abril. Può solo stare lì e sperare che qualcuno si ritiri.»

Gli dispiaceva per il ragazzo, Pepe, che aveva diciannove anni e un grande talento, ma anche un manager che non riusciva mai a inserirlo nelle plazas di prima categoria. Non era tanto una questione di capacità quanto di stile.

«La moda cambierà», disse Manuela, consapevole che il fratello si sentiva responsabile per Pepe.

«È convinto di essere ormai troppo vecchio per poter sfondare», spiegò Javier. «Si confronta con El Juli, che sembra sull'arena da decenni e che ha solo un paio d'anni più di lui. E si scoraggia.»

Alejandro ordinò altre tre birre. Manuela stava fissando Javier, un sopracciglio inarcato.

«Che c'è?» domandò Falcón.

«Tu», rispose lei. «Tu e Pepe.»

«Lascia perdere.»

«Ricordi, vero, quello che ha scritto quel tizio su 6 Toros l'anno scorso?»

«Un idiota.»

«Tu sei più vicino a Pepe di quanto non lo sia suo padre. Ha un mucchio di affari in Sudamerica, ma non va a vedere suo figlio quando si esibisce in Messico.»

«Stai facendo del sentimentalismo, come quel giornalista», commentò Javier. «Io mi limito ad aiutare Pepe con i tori.»

«Sei fiero di lui come non lo è nemmeno suo padre.»

«Non sei giusta», obiettò Falcón e poi, per cambiare argomento: «Oggi mi è capitato di vedere una foto di papà…»

«Devi trovarti una donna, Javier», lo interruppe Manuela. «Non va bene questo star lì a guardare i vecchi album.»

«Era una fotografia trovata nello studio di Raúl Jiménez. Si trovava a Tangeri più o meno nello stesso periodo. Papà non si era accorto di essere fotografato.»

«Stava facendo qualcosa di imperdonabile?»

«La data era agosto 1958 e lui stava baciando una donna…»

«Non dirmi… non era Mamá?»

«Proprio così.»

«E per te è stato un colpo?»

«Sì», rispose lui. «Era Mercedes.»

«Papà non era un angelo, Javier.»

«Mercedes era ancora sposata a quel tempo, no?»

«Non lo so», disse Manuela, scacciando ogni cosa con la sua sigaretta. «Era la Tangeri di quei giorni, tutti quanti su di giri a scopare di qua e di là.»

«Puoi cercare di ricordare? Eri più grande di me, io non avevo nemmeno quattro anni.»

«Che importanza può avere?»

«Penso soltanto che potrebbe essere di aiuto.»

«Per l'omicidio di Raúl Jiménez?»

«No, no, non credo. È sul piano personale, voglio solo chiarire le cose, tutto qui.»

«Sai, Javier, forse non dovresti vivere da solo in quella grande casa.»

«Ho provato a viverci con qualcuno che non si può nominare.»

«Questo è il punto. Le vecchie case sono piene e alle donne non piace dividere il proprio spazio vitale a meno che non siano loro a volerlo fare.»

«A me piace vivere lì. Mi sento al centro delle cose.»

«Però non ci vai mai 'al centro delle cose', vero? Non conosci niente che non si trovi tra calle Bailén e la Jefatura. E la casa è davvero troppo grande per te.»

«Come lo era per papà?»

«Dovresti prenderti un appartamento come il mio… con l'aria condizionata.»

«L'aria condizionata?» ripeté Javier. «Sì, forse aiuterebbe. Aria purificata. Gli ultimi modelli non hanno un pulsante che dice: 'passato condizionato'?»

«Sei sempre stato un bambino strano. Papà avrebbe dovuto lasciarti fare l'artista.»

«Il che avrebbe risolto tutti i problemi, perché sarei stato talmente in bolletta che alla sua morte avrei dovuto vendere immediatamente la casa.»

Sopraggiunsero gli altri amici di Manuela e di Alejandro e Javier finì la birra. Si nascose dietro una barricata di scuse per evitare la cena: il lavoro, insistette più volte, una cosa che pochi di loro potevano capire, essendo bene al riparo dalle difficoltà del quotidiano.

Tornato a casa, cenò con cozze in salsa di pomodoro, fredde. Un piatto che gli aveva lasciato Encarnación, la quale sapeva che non si poteva mangiare bene senza una donna in casa. Bevve un bicchiere di vino bianco scadente e raccolse il sugo con un pezzo di pane raffermo. Non pensava a niente in particolare, eppure sentiva la mente affannata da un senso di precipitazione. Forse si stava scaricando dalle tensioni del giorno, si disse, ma dopo un po' si rese conto che stava piuttosto «caricando» qualcosa, come un nastro che si riavvolgesse rapidamente: Inés. Separazione. Divorzio. «Tu non hai cuore.» Trasloco in quella casa. Suo padre morente…

Fermò il nastro. Nella testa avvertì un deciso scatto. Andò a letto con troppe cose che avvenivano dentro di lui, sbatté contro un muro di sonno e fece il primo sogno che avrebbe ricordato da diversi anni a quella parte. Un sogno semplice. Era un pesce. Pensava di essere un grosso pesce, ma non poteva vedersi. Era pesce, consapevole soltanto dell'acqua che scorreva rapida intorno a lui e di una scintilla nell'occhio che stava inseguendo, il suo istinto gli diceva di inseguirla. Era veloce. Così veloce che non vide mai ciò che inseguiva istintivamente. Lo ingoiò e continuò a nuotare. Solo che… dopo un momento avvertì uno strattone, il primo strappo nelle viscere, poi saltò fuori dall'acqua.