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Sveglio, si guardò intorno, stupito di ritrovarsi nel suo letto. Si premette la mano sull'addome. Quei frutti di mare…?

IX

Venerdì 13 aprile 2001, casa di Falcón,

calle Bailén, Siviglia

Si alzò presto; quel peso sullo stomaco era svanito. Passò un'ora sulla cyclette, regolata grazie al computer per eseguire un circuito che simulava un terreno difficile, e la concentrazione richiesta per sfondare la barriera della fatica lo aiutò a pianificare le ore successive. Non sarebbe stata una giornata di vacanza.

Prese un taxi fino alla estación de Santa Justa e bevve un café solo al bar della stazione. L'AVE, il treno ad alta velocità per Madrid, partiva alle 9.30. Aspettò fino alle nove, poi telefonò a José Manuel Jiménez, che rispose come se fosse stato lì ad aspettare lo squillo.

«Diga.»

Falcón si presentò di nuovo e chiese un appuntamento.

«Non ho niente da dirle, Inspector Jefe. Niente che possa aiutarla. Mio padre e io non avevamo più alcun rapporto da trent'anni.»

«Davvero?»

«Tra noi è successo molto poco.»

«Vorrei parlare con lei di questo, ma non al telefono», insistette Falcón. Jiménez non reagì. «Posso essere da lei all'una e andarmene prima di pranzo.»

«Davvero non mi è comodo.»

Falcón era preso da un desiderio sfrenato di parlare con quell'uomo, ma poteva farlo solo nel suo tempo libero. Insistette.

«Sto conducendo un'indagine su un omicidio, signor Jiménez. Un assassinio non è mai comodo.»

«Non posso fare nessuna luce sul suo caso, Inspector Jefe.»

«Devo conoscere lo sfondo, il passato.»

«Chieda a sua moglie.»

«E che cosa sa della sua vita prima del 1989?»

«Perché risalire a tanto tempo fa?»

Ridicolo battagliare così per parlare con quell'uomo. Falcón divenne più determinato.

«Ho un modo curioso ma efficace di procedere nelle mie indagini, signor Jiménez», replicò, tanto per farlo restare all'apparecchio. «E sua sorella? La vede mai?»

L'etere sibilò per un'eternità.

«Mi richiami tra dieci minuti», disse l'altro e riattaccò.

Per dieci minuti Falcón passeggiò avanti e indietro nell'atrio della stazione, pensando a una nuova strategia. Al momento di richiamare aveva una serie di domande allineate come proiettili in una cartucciera.

«L'aspetto all'una», disse Jiménez, e riagganciò.

Falcón comprò un biglietto e salì sul treno. A mezzogiorno l'AVE lo aveva consegnato alla estación de Atocha nel centro di Madrid. Prese la metropolitana per Esperanza, il che gli parve di buon auspicio, e da lì il tragitto fino all'appartamento di Jiménez fu breve.

José Manuel Jiménez lo fece entrare. Era più basso di Falcón, ma di corporatura più robusta e teneva la testa come se dovesse passare sotto una trave o portare sulle spalle un carico. Mentre parlava gli occhi saettavano di qua e di là sotto sopracciglia massicce e scure che evidentemente non erano affidate alle cure della moglie. L'effetto, in luogo di essere furtivo, era di deferenza. Prese il soprabito di Falcón e lo guidò lungo un corridoio dal pavimento di legno fino allo studio, lontano dalla cucina e dalle voci della famiglia, camminando piegato in avanti, come se stesse trascinando una slitta.

Diversi tappeti marocchini ricoprivano il parquet dello studio; la scrivania, in stile inglese, era di noce. Alle pareti, fino alla finestra, scaffali di libri rilegati, strumenti di lavoro di un avvocato. Il caffè fu offerto e accettato. Nei minuti in cui venne lasciato solo, Falcón ispezionò le fotografie di famiglia posate su un mobile con le ante di vetro. Riconobbe Gumersinda con i due figli piccoli. Nessuna di Raúl, e nessuna della figlia in cui la ragazzina avesse più di dodici anni. Le altre, che ritraevano la famiglia di José Manuel Jiménez in varie epoche, culminavano con due foto dei figli diplomati.

Jiménez rientrò con il caffè. Cercarono di manovrare per non urtarsi mentre Falcón ritornava al suo posto e Jiménez sedeva alla scrivania, le mani intrecciate, i bicipiti e le spalle in rilievo sotto la giacca di tweed verde.

«Tra le vecchie foto di suo padre ne ho trovata una di mio padre», esordì Falcón seguendo la sua strategia dell'approccio tangenziale.

«Mio padre possedeva vari ristoranti, sono sicuro che aveva moltissime foto dei suoi clienti.»

E così di suo padre sapeva perlomeno quello.

«Questa non si trovava tra quelle delle celebrità…»

«Suo padre è una celebrità?»

Non avrebbe voluto parlarne, ma Falcón pensò che forse, come aveva dimostrato Consuelo Jiménez, dire qualcosa di sé avrebbe portato a rivelazioni sorprendenti da parte di altri.

«Mio padre era il pittore Francisco Falcón, ma non è per…»

«Allora non sono sorpreso che non fosse sulla parete tra le celebrità», lo interruppe Jiménez. «Mio padre aveva gli interessi culturali di un contadino, quale era in realtà.»

«Ho notato che fumava le Celtas togliendo il filtro.»

«Un tempo fumava le Celtas cortas, che non avevano il filtro ma erano meglio dello sterco secco che aveva dovuto fumare dopo la Guerra civile, diceva lui.»

«Quando aveva fatto il contadino?»

«I suoi genitori avevano un po' di terra dalle parti di Almería, la lavoravano loro. Furono uccisi durante la Guerra civile, andò tutto perduto, e dopo la loro morte mio padre se ne andò. Non so altro. Probabilmente questa è la ragione per cui il denaro era diventato così importante per lui.»

«Vostra madre non…?»

«Dubito che lo sapesse. Comunque sia, a noi non l'ha mai detto. Davvero, non credo che sapesse niente della sua vita prima del loro incontro e mio padre non ne avrebbe certo parlato con i genitori di lei.»

«Si sono conosciuti a Tangeri?»

«Sì. La sua famiglia si era trasferita là all'inizio degli anni '40. Suo padre era un avvocato, era andato a Tangeri, come tutti gli altri, per fare fortuna dopo la Guerra civile che aveva lasciato la Spagna in rovina. Lei era una bambina, poteva avere otto anni, penso. Mio padre entrò sulla scena un po' dopo, forse nel '45. Si innamorò di lei a prima vista.»

«Sua madre era ancora molto giovane, no? Tredici anni?»

«E mio padre ne aveva ventidue. Un rapporto curioso, disapprovato dai genitori di lei. Vollero che aspettasse di avere diciassette anni per sposarsi.»

«Era solo per la differenza di età?»

«Avevano solo quella figlia», spiegò Jiménez, «e non credo che fossero molto contenti della mancanza di retroterra familiare di mio padre. Devono aver capito di che metallo vile fosse fatto. Era anche un uomo che amava l'ostentazione.»

«Era già ricco a quel tempo?»

«Aveva fatto un sacco di soldi laggiù e gli piaceva spendere.»

«Come aveva costruito la sua fortuna?»

«Probabilmente con il contrabbando. Non li aveva fatti legalmente, i soldi, questo è sicuro. In seguito si era dedicato alla finanza, a un certo punto ha perfino posseduto una banca… non che ciò significasse gran che. Entrò anche nel settore edile e immobiliare.»

«Come sa tutto questo?» domandò Falcón. «Lei aveva solo dieci anni quando ve ne andaste e dubito che suo padre le abbia rivelato molto.»

«Ho messo insieme i vari pezzi, Inspector Jefe, così funziona la mia mente. È stato il mio modo di trovare un senso in ciò che è successo.»

Il silenzio scese nella stanza come la notizia di un lutto. Falcón voleva che l'altro continuasse, ma Jiménez stringeva le labbra, cercando il coraggio.

«Lei è nato nel 1950», disse Falcón, incitandolo.

«Nove mesi esatti dopo il loro matrimonio.»

«E sua sorella?»