«Non pensi nemmeno per un momento che io non sappia quello che faccio», dichiarò. «Prima d'ora non ho mai parlato di queste cose con nessuno, a parte l'uomo che mi ha sciolto il nodo nel cervello. E sa perché? Perché non vorrei mai infettare la pace mentale di mia moglie con qualcosa di tanto terribile. Getterebbe il buio sulla nostra casa, lasciandoci a brancolare nelle tenebre.»
«Mi dispiace», disse Falcón.
Jiménez raddrizzò le spalle e alzò una mano in segno di scusa, rendendosi conto di essere stato troppo drammatico.
«Lasciammo Tangeri di notte, senza valigie, solo i vestiti che avevamo indosso, l'abito da sposa di mia madre e i suoi gioielli. Al porto era stato tutto pagato, non ci venne chiesto nessun documento. A un certo punto sembrò che dovessero fermarci, ma altro denaro passò di mano e noi salimmo sulla barca e prendemmo il largo. Passammo a prendere mia sorella nel villaggio sopra Algeciras e iniziammo la nostra vita da zingari.
«Non avvertii mai nessun senso di pericolo. Mio padre non passeggiò mai più avanti e indietro come un leone in gabbia, ma quando il suo istinto gli diceva di partire… partivamo. In genere abitavamo in città grandi, passammo un certo tempo qui a Madrid, ma mio padre detestava Madrid. Io credo che lo facesse sentire provinciale, che gli ricordasse chi era.
«Arrivammo ad Almería all'inizio del 1964. Mio padre possedeva un paio di imbarcazioni per la navigazione costiera da Algeciras a Cartagena, ma gli si presentò l'occasione di costruire un albergo sul mare ad Almería, così ci trasferimmo là. Sembrava che a mio padre piacesse l'idea di sistemarci; deve aver pensato che cinque o sei anni di spostamenti fossero sufficienti, il mondo cambiava, i rancori si esaurivano senza il nutrimento della vendetta. Sbagliava. Perciò credevo che fosse importante sapere che cosa mai avesse fatto per rendere altri implacabili al punto che non avrebbero mai cessato di cercarlo. E devo ammettere che ancora me lo chiedo, anche se ho stemperato la morbosità di questo interesse con la convinzione della sua irrilevanza.»
«Perché vuole saperlo?»
«Credo che mi servirebbe per rendermi conto esattamente di che mostro fosse.»
Falcón ebbe un brivido, diviso tra le emozioni contrastanti suscitate dal pensiero che Raúl Jiménez fosse stato un mostro e il ricordo di suo padre che giocava a fare il mostro: che facce terribili assumeva mentre fingeva di divorarlo! Suo padre non sapeva controllarsi, perché ben poco nel suo mondo esigeva il controllo di sé e ben più di una volta sulla schiena di Javier era rimasto il segno dei denti per giorni.
«Si sente bene, Inspector Jefe?»
Falcón sperò di non avere una faccia simile a quelle di suo padre, mascheroni da fontana con lingue sbavanti.
«Pensieri incompiuti», disse.
«Dove eravamo?»
«Almería, 1964», rispose Falcón. «Non mi ha detto come sua madre avesse preso tutto questo girovagare.»
«Dal punto di vista della salute fisica, bene. Se era infelice, non lo dava a vedere né a noi né a lui. D'altronde le mogli non avevano molta voce in capitolo allora. Lei tirava avanti.»
«Suo padre stava costruendo l'albergo?»
«A questo punto dovrei parlarle di Marta. Le ho detto che le piaceva prendersi cura degli altri, ricorda?»
«Dei gatti.»
«Già, i gatti. Una volta partiti da Tangeri, lei trasferì tutte le sue cure su Arturo. Mia madre avrebbe potuto affidarglielo completamente. Marta faceva tutto per lui, era la sua vita. Curioso, no? Marta non aveva bambole, ne riceveva in regalo ma non le guardava nemmeno. La affascinavano di più gli esseri viventi. Strano, non crede, per una creatura così poco complicata?»
«Forse non aveva sviluppato l'immaginazione.»
«Può darsi. L'immaginazione è una cosa complicata, come la vita, del resto.»
«Probabilmente non vi leggeva quello che c'era.»
«Un tempo mi chiedevo che cosa le passasse per la mente.»
«Ora non più?»
«Per i primi vent'anni quasi non ha detto una parola. Poi è accaduto qualcosa. Nel corso del tempo il personale dell'istituto dove si trova è cambiato, non sono molti i giovani disposti a lavorare in un ospedale psichiatrico e così i posti vengono occupati dagli immigrati. Nel caso di Marta si è trattato di un ragazzo del Marocco che aveva portato con sé un gattino e quindi deve essere scattato qualcosa dentro di lei. Si è animata. Forse le ha ricordato i giorni dell'infanzia, i ragazzi della casa e i gatti.»
«Ha parlato?»
«Non erano parole intelligibili — non usava le corde vocali da decenni — però articolava qualcosa. È stato comunque un principio. Da allora non ha fatto grandi progressi. A me non dice niente quando vado a trovarla, forse io le rammento troppo il trauma originario.»
«I medici sapevano quale fosse stato questo trauma?»
«Lo hanno saputo solo tre anni fa e non tutta la storia.»
«Tre anni fa?»
«Quando io stesso ho cominciato a osare affrontare l'argomento. Mi chiedevano chi fosse Arturo: Marta era arrivata fin là. E io li ho rimandati a mio padre, il quale ha negato che nel nostro ambiente familiare vi fosse mai stato qualcuno con quel nome, il che non era vero. Il padre di mia madre si chiamava Arturo. Le ho detto che i suoi genitori erano morti?»
«No.»
«L'anno prima della nascita di Arturo morirono tutti e due a distanza di tre mesi l'uno dall'altro. La nonna di cancro, il nonno di infarto. Credo sia stato per questo che mia madre decise di rischiare.»
«Che cosa ha detto ai medici di Marta?»
«Il mio psicoanalista ha scritto loro una lettera in seguito, per chiarire tutto, ma allora io ho detto soltanto che si trattava di un nostro fratello minore e che era morto.»
«È andata così, non è vero?»
«Suppongo che nel suo lavoro lei venga a contatto spesso con la natura del male assoluto», osservò Jiménez.
«Mi sono imbattuto in cose brutte e in cose folli, ma non sono sicuro di aver conosciuto 'la natura del male assoluto'. Ho indagato su fatti criminali e perciò comprensibili, ma quando si comincia a parlare del male ci si addentra in un terreno metafisico.»
«Il che», chiese Jiménez, «è al di là del campo di azione dell'Inspector Jefe del Grupo de Homicidios de Sevilla?»
«Non sono un prete», ribatté Falcón. «Se lo fossi stato, forse mi avrebbe aiutato, perché l'omicidio di suo padre è stato il più impressionante di tutta la mia carriera. Quando ho visto la sua faccia e mi sono reso conto di ciò che gli era stato fatto, ho sentito di trovarmi alla presenza di qualcosa di potentissimo. In genere sono molto distaccato nel mio lavoro, ma questa volta sono stato profondamente coinvolto. È una cosa che non vorrei far sapere ai miei superiori.»
Jiménez, seduto di sbieco sulla sedia, le gambe accavallate, aprì e chiuse una mano: Falcón pensò che forse avrebbe voluto sapere ciò che era successo a Raúl, ma che non osasse chiederlo.
«L'animo malvagio conosce profondamente la natura umana», disse Jiménez dopo qualche momento. «È felice quando può crogiolarsi tra vendetta e tradimento, quando può nutrirli, sa istintivamente dove e quando colpire e sa arrivare esattamente al cuore delle… cose. Non hanno ucciso mio padre, il che forse sarebbe stato giusto, non hanno stuprato e ammazzato mia madre o mia sorella o me, il che sarebbe stato ingiusto e crudele. Hanno fatto l'unica cosa che sapevano avrebbe totalmente distrutto la famiglia di mio padre. Hanno preso Arturo. Un giorno lo hanno portato via e da allora non abbiamo mai più saputo nulla né di lui, né di loro.»
Jiménez batté rapidamente le palpebre, sperduto nelle vaste desolazioni della sua incomprensione.
«Vuol dire che lo hanno rapito?»
«Marta mentre andava a scuola accompagnava sempre Arturo alla sua e lo passava a prendere al ritorno. Un giorno non lo trovò a scuola e non era nemmeno a casa. Noi setacciammo la città mentre la mamma chiamava mio padre al cantiere. Arturo aveva sei anni, era ancora piccolo. E lo portarono via.»