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«Che cosa gli successe dopo?» domandò Ramírez.

«Il giorno seguente si impiccò», rispose Falcón. «Che cosa si fa quando si è un prete e si è passata tutta la vita a insegnare la ricerca della verità nella parola di Dio?»

«Mio Dio!» esclamò Ramírez. «Ma non è necessario uccidersi, non bisogna prendere la vita così seriamente!»

«Per questo mio padre me lo raccontò», spiegò Falcón. «Gli avevo detto che avrei voluto essere un artista… come lui. Mi disse di stare attento, perché anche l'arte ha a che fare con la ricerca della verità, personale o universale che sia.»

«Ci sono!» esclamò Ramírez, scoppiando a ridere e battendo il palmo della mano sul volante.

«Bene, allora ha capito che cosa vuol dire sapere senza sapere.»

«Macché! Ho capito perché ha fatto il poliziotto!»

«Ah, sì?»

«La ricerca della verità! Cazzo, è geniale! E noi siamo tutti artisti, cazzo!»

Era stata quella la ragione? No. Perché dopo aver rinunciato all'idea di diventare artista, una volta venuto a patti con i dubbi di suo padre sul suo talento, gli aveva detto di voler fare invece lo storico dell'arte e suo padre gli aveva riso in faccia. «Gli storici dell'arte, i critici d'arte sono solo poliziotti che indagano sui quadri, vanno a caccia di indizi, si riempiono la vita di speculazioni e di congetture e nove volte su dieci fanno fiasco. La critica d'arte è per i falliti», aveva detto, «non solo artisti falliti, ma esseri umani falliti.» Quali riserve di derisione aveva suo padre per quella gente! E così era entrato nella polizia. No, non era del tutto vero nemmeno questo. Era andato a Madrid all'università e aveva studiato inglese (il solo popolo, a parte lo spagnolo, che suo padre tollerasse in certa misura) e aveva cominciato ad appassionarsi ai film noir americani degli anni '40. E aveva fatto il poliziotto.

Provò un senso di precipitazione, come avesse dormito e stesse affiorando rapidamente dal sonno, ma era sveglio e i pensieri gli guizzavano intorno, lucenti e veloci come sardine. Scosse il capo, tornò con un brivido alla vita reale, ai sedili dell'auto, alla plastica, al vetro e alle altre cose solide, fatte dall'uomo.

«Serrano ha trovato qualcosa sul cloroformio e gli strumenti chirurgici?» domandò, ritrovando l'equilibrio grazie alle parole.

«Fino a questo momento niente.»

Fermarono l'auto davanti al cimitero. Ramírez prese la videocamera sul sedile posteriore, Falcón esitò sul marciapiede osservando la folla numerosa, il muro di fiori all'esterno della cappella, il cielo azzurro che quasi rendeva allegra la scena. Consuelo Jiménez era al centro del gregge, i suoi tre figli un po' stralunati nella foresta di gambe degli adulti. Falcón era alto come loro, a un altro funerale.

La funzione doveva essere già finita, stavano caricando la bara sul carro funebre fuori dalla cappella. Il conducente si diresse al cancello e i partecipanti si avviarono in lenta processione verso il centro del cimitero, lungo il vialetto fiancheggiato da siepi di bosso al di là delle quali si allineavano le cappelle e le tombe; superarono un enorme monumento in bronzo del torero Francisco Rivera nel suo costume, un toro immaginario galoppante in sempiterno alle sue spalle, una mano del torero sull'elsa della spada spezzata, nell'altra una cappa altrettanto immaginaria.

Il carro funebre arrivò a Jesús de la Pasión. La bara venne scaricata e trasportata al mausoleo di granito dove venne deposta di fronte all'unico altro occupante: la prima moglie. Consuelo Jiménez ricevette le condoglianze di quelli che non aveva ancora potuto salutare. Falcón controllò l'interno della cappella. Il ripiano di marmo sotto a quello della prima moglie di Jiménez non era completamente vuoto: in un angolo si vedeva una piccola urna, troppo piccola per contenere ceneri. La illuminò con la pila inserita nella penna e lesse la placchetta d'argento: ARTURO MANOLO JIMÉNEZ BAUTISTA. Forse era quella la conclusione di cui aveva parlato José Manuel.

Falcón raggiunse gli altri, porse le sue condoglianze e si avviò lentamente all'uscita mentre Ramírez si aggirava tra le tombe con la videocamera.

«Naturalmente lo conoscevi, non è vero?» disse una voce vicino all'orecchio di Falcón mentre una mano gli stringeva il gomito.

La faccia da cane triste di Ramón Salgado si insinuò nella visione periferica di Falcón. Ecco un individuo della specie che suo padre disprezzava cordialmente. Non lo derideva apertamente, certo, perché, pur essendo un critico d'arte, Salgado era più conosciuto come il gallerista che aveva reso suo padre famoso. Aveva un elenco di clienti ricchissimi e, fino al primo infarto di suo padre, li aveva indirizzati regolarmente a calle Bailén, perché potessero liberarsi di quegli inutili pacchi di denaro che intasavano il loro conto in banca.

«No, non lo conoscevo», rispose Falcón, ricorrendo alla freddezza che in genere riservava a quell'uomo. «Avrei dovuto?»

Gli tese la mano e Salgado la strinse tra le sue. Falcón la ritirò. Salgado si passò le dita tra i capelli lunghi, pretenziosi, il cui biancore argenteo si arricciava sul colletto dell'abito blu scuro. «Salgado… gli brilla perfino la forfora», soleva dire suo padre.

«No, è possibile che tu non l'abbia conosciuto, a ben pensarci», disse Salgado. «Non veniva mai a casa vostra, proprio così, ora ricordo. Mandava sempre Consuelo da sola.»

«Mandava?»

«Ogni volta che apriva un nuovo ristorante voleva sempre che vi fosse un Falcón. Sinonimo di Siviglia, capisci, con quel che segue.»

«Ma perché mandare lei

«Penso che forse sapesse del modo di fare piuttosto particolare di Falcón ed essendo un importante uomo d'affari non era disposto a sopportare il… come posso dire, il suo atteggiamento sarcastico, sì, sarcastico.»

Naturalmente intendeva parlare del disprezzo assoluto con cui suo padre faceva a pezzi gli eventuali compratori, ricavandone palesemente piacere.

Si avvicinarono al cancello del cimitero. I cerchi rossi davano l'impressione che gli occhi afflosciati di Salgado fossero stati appena asciugati dopo un pianto dirotto; secondo Javier un tempo quell'uomo era stato ben diverso dallo stecco che era diventato e il peso perduto, per forza di gravità, aveva reso cascante la pelle sotto gli occhi e gli zigomi. Suo padre diceva sempre che gli ricordava un segugio, ma che perlomeno non sbavava. Un complimento velato. Suo padre odiava gli atteggiamenti deferenti, a meno che non fossero da parte di una bella donna o di qualcuno di cui ammirava il talento.

«Come mai conosceva Jiménez?» domandò.

«Come sai, io abito a El Porvenir. Quando ha aperto quel suo ristorante, sono stato uno dei primi clienti.»

«Non lo conosceva già?»

Camminavano a passo svelto e le lunghe gambe di Salgado avevano una certa tendenza a muoversi disordinatamente; il piede urtò la gamba di Falcón e il gallerista sarebbe finito lungo disteso per terra, se l'ispettore capo non lo avesse trattenuto.

«Mio Dio, grazie, Javier! Non voglio cadere, alla mia età mi romperei il femore e finirei confinato in casa con la testa che mi svanisce.»

«Lei è in gamba, Ramón.»

«No, no, questa è una mia grande paura. Un unico stupido errore e pochi mesi più tardi eccomi diventato un vecchio rimbambito e solo, in un angolo buio di una casa dove non viene nessuno.»

«Non sia sciocco, Ramón.»

«È accaduto a mia sorella. La settimana prossima vado a San Sebastián per portarla a Madrid. Proprio così. È caduta, ha battuto la testa, si è rotta un ginocchio e hanno dovuto ricoverarla in un istituto. Io non posso andare là a trovarla ogni mese, preferisco che sia più vicina. Terribile. Ma non pensiamoci, senti, perché non andiamo a berci un fino