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Che non c'era stato. Si era svegliato. Nessun impatto. Sua madre gli aveva detto… la sua prima o la sua seconda madre? Una delle due gli aveva confidato che in un incubo, finché non si urtava il suolo tutto andava bene. Ridicolo. Si era nel proprio letto. Le cose che ti fanno credere!

Si inginocchiò e si allacciò le scarpe, strette, in modo che i piedi fossero al sicuro e stabili, affidabili. Non era quello il momento di ciabattare in giro nelle pantofole gialle di pelle che si era comprato perché gli ricordavano suo padre. Francisco Falcón le portava sempre quando lavorava: a piedi nudi o in pantofole, mai niente altro.

Quel riaffiorare continuo di ricordi era esasperante.

Uscì dalla stanza nella galleria che si affacciava sul patio. Faceva caldo, l'aria che spirava intorno alle colonne era morbida come una ragazza che fosse venuta a dargli un bacio. Inspirò profondamente e l'aria inebriante gli riempì all'improvviso la testa del profumo delle cose ancora possibili. La pupilla nera dell'acqua ferma nella fontana del patio fissava la notte. Falcón rabbrividì. Tutte queste case guardano solo se stesse, pensò. I muri le erodono. Devo uscire. Devo uscire da me stesso.

Si avviò giù per le scale, ma si voltò verso la galleria, in direzione dello studio di suo padre. Il cassetto delle chiavi non c'era più. Encarnación. Strano, pensò, un nome come quello, eppure la vedo così raramente. Sempre intenta ad assumere forma umana, immaginava, ma senza mai comparire. Io vedo soltanto le prove della sua attività. Risalì fino al cancello, perché aveva visto che nel lucchetto era rimasta una chiave e, appesa a un frammento di spago, un'altra. Si accarezzò il palmo della mano con i polpastrelli. Sudate. Aveva sempre avuto le mani asciutte e fresche, Inés glielo faceva notare. Quando erano amanti, gli bastava far scorrere le mani sulla sua schiena calda perché lei s'inarcasse premendo il ventre sul lenzuolo, offrendosi a lui. Quelle mani fresche e asciutte sulla sua pelle. Alla fine del matrimonio, sua moglie lo chiamava pescivendolo. «Non toccarmi con quei blocchi di ghiaccio!» lo ammoniva con disprezzo.

Girò la chiave. Un giro, due giri e mezzo. La serratura scattò, il cancello si aprì senza cigolare. Chi aveva oliato i cardini? La fantastica Encarnación? Sentiva il cuore battergli forte, come se intuisse che stava per accadere qualcosa. Sfilò la chiave dalla toppa, richiuse il cancello di ferro battuto.

Suo padre aveva fatto mettere le sbarre alle arcate di quel lato della galleria, ossessionato com'era dal problema della sicurezza. Falcón lo percorse tutto, l'acqua nera e piatta della fontana che si increspava nella sua mente. Poi tornò indietro fino alla porta al centro, la pesante porta di mogano con i pannelli sporgenti che diceva: «Vietato entrare» o forse, con ancora maggior esigenza: «Vietato entrare impreparati».

La seconda chiave scivolò nella serratura, girò facilmente. Incoraggiante. Gli occorse una certa forza per spingere il battente: la prima resistenza. La porta si aprì con un cigolio assurdo, il coperchio della bara di un vampiro. Falcón ridacchiò, nervoso come Leda quando aveva visto il famoso cigno dispiegare le ali. Una delle battute ironiche di suo padre sulle donne che tremavano al cospetto del suo carisma. Annaspò alla ricerca dell'interruttore.

Alla luce delle lampade alogene apparve un vasto muro vuoto, spruzzato di colore: la parete sul lato dove suo padre dipingeva, cinque metri per quattro di tracce di lavoro, le vestigia di quattro tele che sembravano galleggiare sotto le macchie di vernice sgocciolata e le pennellate. L'estremità del muro più vicina alla finestra era quasi completamente nera, la pittura spessa, come se suo padre avesse lavorato su idee gravate da un senso di imminente rovina. Sul resto della parete predominava il rosso, un colore che non aveva usato molto in nessuna delle sue opere dal tempo dei nudi di Tangeri, linee voluttuose distese su blocchi di colore del Marocco: blu tuareg, ocra deserto, terra di Siena pura, terracotta e poi i rossi, l'intera gamma dei rossi sangue, dal cremisi dei capillari al vermiglio delle vene, all'amaranto scuro delle arterie. Si diceva comunemente che stava tutto in quel rosso, il flusso della vita. Ma dopo Tangeri Francisco Falcón non aveva più usato il rosso. Nei quadri degli scorci di Siviglia non lo impiegava quasi mai, in quei paesaggi astratti verdi e grigi, marroni e neri e sempre soffusi da una luce misteriosa proveniente da una fonte invisibile. Luce che il critico di ABC aveva definito magica ed El País «disneyana». «Non si può insegnare agli altri a vedere», aveva commentato suo padre. «Ognuno vede soltanto ciò che vuole, la mente interferisce sempre con la visione; tu dovresti saperlo, Javier, dato il lavoro che fai. Testimoni che hanno visto tutto tanto chiaramente e che, una volta sul banco per il controinterrogatorio, quasi non ricordano nemmeno di essersi trovati sul posto. Un cieco saprebbe dire di più. Ricordi quel film, La parola ai giurati? La traduzione del titolo originale è Dodici uomini arrabbiati. Ma perché 'arrabbiati'? Perché la gente crede fermamente nella veridicità della propria visione. Se non ci possiamo fidare dei nostri occhi, degli occhi di chi dovremmo fidarci?»

Ricordando quelle parole Falcón si era arrestato di colpo, la gamba alzata, ridicolo come uno di quei mimi sulla calle Sierpes. I pensieri ruotavano vorticosamente intorno a quel punto cruciale, a una verità che gli permettesse di leggere nella mente dell'assassino di Raúl Jiménez. Quella che avrebbe costretto la vittima, evitando le interferenze della mente, a vedere l'inaccettabile realtà. Ma non riuscì a raggiungerla e si risvegliò sorpreso come un paziente anestetizzato, ridestatosi dopo quella breve vacanza dal mondo.

Girò intorno ai tavoli coperti da vasetti e barattoli pieni di pennelli induriti, incrostati di colore secco. Sotto i tavoli scatole di cartone e pile di libri, di cataloghi e riviste, oscuri periodici d'arte e risme di carta, rotoli di tela, fogli di cartoncino. Avrebbe impiegato un giorno intero solo per trasportare tutta quella roba al pianterreno, figuriamoci poi per esaminarla. Ma la questione era: non avrebbe dovuto nemmeno guardarla, avrebbe dovuto portarla via e bruciarla. Non buttarla via, ma distruggerla in modo radicale.