Falcón si passò le dita tra i capelli, più e più volte, impazzendo al pensiero dell'impresa in cui stava per imbarcarsi, consapevole di trovarsi li precisamente per disubbidire alle disposizioni di suo padre e di aver sempre rimandato quel momento dal giorno della sua morte, perché aveva avuto bisogno di prendere le distanze dalla fine di quell'epoca, per poter cominciare la propria. La propria? Si poteva parlare di un'epoca per le persone comuni come lui?
Si chinò e sfilò una rivista da un mucchio, il New Yorker. Suo padre aveva amato molto i disegni di quella rivista; più surreali erano, più gli piacevano. In particolare si era entusiasmato per il disegno di un pezzo degli scacchi posto accanto a un cactus del deserto con la scritta: «Pedone ad Albuquerque, Nuovo Messico». Aveva trovato nell'abbagliante splendore di quell'insensatezza uno sguardo perfetto nei confronti della vita, forse perché la sua era arrivata vicino all'insensatezza a causa della perdita di un genio abbagliante.
I ricordi si affollavano, urtavano violentemente l'uno contro l'altro.
Una discussione su Hemingway, sulla ragione per cui Hemingway si fosse sparato. Era stato nel 1961, l'anno in cui la madre di Javier era morta. Un uomo che aveva raggiunto un tale successo e che si era ucciso perché non sopportava l'idea di non riuscire più a ritornare a quel livello. Javier aveva sedici anni quando ne avevano parlato.
Javier: «Perché non si è ritirato e basta? Aveva più di sessant'anni, perché non ha appeso la penna al chiodo e non si è sistemato in una veranda al sole di Cuba a bere mojito?»
Padre: «Perché era sicuro di poter ritrovare ciò che aveva perduto, di doverlo ritrovare».
Javier: «Be', avrebbe potuto occuparsi di questo, la caccia al tesoro… un gioco che piace a tutti».
Padre: «Non è un gioco, Javier. Non è un gioco».
Javier: «Il suo posto nella letteratura era già assicurato, aveva vinto il premio Nobel. Dopo Il vecchio e il mare il suo lavoro era finito, non c'era altro da dire. Perché cercare di dire di più se…?»
Padre: «Perché aveva avuto quella cosa e l'aveva perduta. È come perdere un figlio… non si riesce mai a superarlo».
Javier: «Ma guarda te, papà. Anche a te è successo, eppure…»
Padre: «Non parliamo di me».
Falcón gettò via la rivista al pensiero della sua stupidità. Trascinò uno scatolone in mezzo alla stanza e lo aprì. Tutta quella roba accumulata in una vita, la vita di un artista che si attaccava a ogni oggetto capace di far scaturire una nuova idea! Compì qualche passo lungo gli scaffali di libri ai lati e in fondo alla stanza. «Devo bruciare anche questi?» si domandò. «È questo che vuoi? Vuoi che dia fuoco ai libri? Che li butti giù dalla galleria nel patio e accenda un falò di parole e di figure? Non è possibile che tu lo abbia voluto.» Ah, la capacità di persuasione dell'animo colpevole che sta per trasgredire!
Nella parete che dava sulla strada c'erano quattro finestroni; li aveva fatti aprire suo padre per ottenere il massimo di luce naturale, ogni finestra munita di un cancello retrattile di metallo. Lo studio era praticamente una fortezza.
Arrivò davanti alla parete di lavoro del padre e, attraverso una porta in un angolo, entrò in un locale senza finestre e illuminato da una lampadina appesa al soffitto. Lungo una parete quattro rastrelliere verticali, dove erano riposte tele e altro materiale, mentre il lato opposto era occupato quasi interamente da una cassapanca sulla quale le scatole si ammonticchiavano in pile alte quasi fino al soffitto. Un odore di muffa, di chiuso e, dopo il lungo inverno, di umido. Si avvicinò alle rastrelliere ed estrasse un foglio a caso. Era uno schizzo a carboncino di uno dei nudi di Tangeri. Ne prese un altro, un disegno a matita dello stesso nudo. Un altro e un altro ancora, ognuno una rielaborazione dello stesso soggetto, lo sviluppo di un particolare, lo studio di un angolo. Passò alle tele. Lo stesso nudo di Tangeri dipinto più e più volte, in grande, in piccolo, sempre lo stesso soggetto. Guardò nelle altre rastrelliere e scoprì che ognuna delle quattro corrispondeva a uno dei quattro famosi nudi Falcón. Centinaia di disegni e di carboncini, di oli e di acrilici.
Fu sopraffatto da una tremenda tristezza. Quei lavori, la parete di rastrelliere in quella stanza dalla luce fioca, ecco tutto ciò che restava del tentativo di suo padre di ritrovare il suo genio, di riappropriarsene, di farlo rivivere non fosse che una sola volta, non fosse che in un solo minuscolo dettaglio. Un'ondata di tristezza che faceva male, perché Falcón aveva visto, nonostante la luce patetica di quella misera lampadina, che nessuno di quei lavori conteneva qualcosa dell'eccezionale qualità degli originali. Era tutto perfetto, ma non vi era vita, né slancio, né fiamma, né vibrazione. Quelle cose erano mediocri. Erano migliori i suoi paesaggi astratti, erano migliori perfino le sue cupole e le sue finestre, le sue porte e le sue arcate. Quelle cose poteva bruciarle, poteva darle alle fiamme senza pensarci due volte.
Salito su uno sgabello, tirò giù una scatola. Pesante. Altri libri. L'aprì e frugò all'interno, tra i volumi rilegati in pelle, in tela, qualcuno di scrittori degli anni '60 e '70, altri di autori classici. Ne sfogliò uno e vide la dedica. Erano regali di ammiratori: aristocratici, ministri, registi teatrali, poeti. Aprì un'altra cassa e vi trovò porcellane accuratamente incartate. Una terza conteneva oggetti d'argento. Sigari… intatti. Portasigarette. Piccole sculture in legno. Statuette. Suo padre odiava le statuette di porcellana: ne trovò tre scatoloni pieni, le più vecchie avvolte in giornali dell'epoca, le più recenti in fogli di plastica a bolle. Si rese conto di che cosa stesse guardando. Omaggi a suo padre, piccoli doni che gli venivano offerti in qualche occasione mondana, piccole espressioni di gratitudine per il suo genio.
Altri ricordi. Viaggi con suo padre. Raramente aveva pagato un pasto o una camera d'albergo, dove trovava sempre mazzi di fiori. Se si fermavano in qualche casa privata, i proprietari lasciavano silenziose offerte di frutta per dimostrare quanto fossero stati onorati dalla visita del grand'uomo.
«Così va il mondo», diceva suo padre. «La grandezza è sempre premiata. Se io fossi un calciatore o un torero non sarebbe diverso. Si tratta sempre di genio, non importa con che cosa, con il piede, con la cappa, la penna o il pennello. Eppure… che cos'è mai? Grandi pittori possono dipingere quadri senza vita, brillanti toreri fanno disastri con magnifici tori, superbi scrittori scrivono pessimi libri, calciatori sublimi riescono a giocare da fare schifo. E allora che cos'è questo… questo volubile genio?»
Sì, l'idea lo aveva irritato moltissimo. Javier lo ricordava con la mano alzata, il pollice premuto contro l'indice con tale forza che la punta delle dita si era sbiancata. Aveva pensato stesse per dire che il genio non era nulla.
«Il genio è un interstizio.»
«Un che cosa?»
«Una breccia. Una minuscola fessura alla quale, se si è fortunati, si può mettere l'occhio per vedere l'essenza.»
«Non capisco.»
«Non puoi capire, Javier, perché tu hai la benedizione della normalità. Per il calciatore l'interstizio è il momento in cui sa esattamente, senza esserne conscio, dove si troverà la palla, come dovrà correre per raggiungerla, dove dovrà mettere i piedi, dove sarà il portiere, l'istante preciso in cui dovrà colpire il pallone. Calcoli evidentemente impossibili divengono magicamente semplici, il movimento è fluido, il tempismo sublime, l'azione così… rallentata. Lo hai notato? Hai mai notato il silenzio di quei momenti? O ricordi soltanto il ruggito mentre il pallone accarezza la rete?»
Un'altra conversazione interminabile con suo padre. Falcón scosse la testa per liberarsene. Guardò in tutte le scatole, vagamente a disagio nel constatare l'ordine metodico del padre. Francisco Falcón in genere lavorava in una grande confusione di colori, di hashish, di musica e, a Siviglia, quasi sempre di notte, eppure in quel ripostiglio regnava la pignoleria. Quasi a conferma di ciò, aprì una scatola piena fino all'orlo di banconote. Non dovette nemmeno contarle, perché un biglietto lo informò che si trattava di ottantacinque milioni di pesetas. Una grossa somma di denaro, sufficiente a comprare una piccola villa o un appartamento di lusso. Gli torno alla mente il discorso di Salgado a proposito di fondi neri. Avrebbe dovuto distruggere anche le banconote?