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La Vergine si fermò e sprofondò nel buio. La luce delle candele tremolò sul suo viso, colse le lacrime cristalline, gli occhi addolorati. Doveva superarla, lasciarsi indietro quel terribile emblema di lutto, quello sfolgorante esempio della capacità di barbarie del mondo. Si fece strada a forza tra le penitenti, lasciandosi alle spalle le madri tranquille, il bambino che dormiva in braccio al padre, la testa sul suo petto. Non resisteva più.

Lo colpirono con i pugni sulla schiena per fermarlo, ma Falcón procedette senza badare a niente, raggiunse la barriera, vi si infilò sotto e corse tra i nazarenos silenziosi vestiti di nero, con gli alti cappucci a cono, indistinguibili nella notte. I loro occhi erano su di lui, occhi sinistri nei volti incappucciati, gli Ordini silenziosi più imperiosi degli altri. Corse tra le file di uomini scalzi, allontanandosi dalla Madonna ondeggiante. Era disperato.

La folla si fece più rada e Falcón riuscì senza difficoltà a scavalcare la barriera, ma non rallentò finché non sbucò in calle Cabeza del Rey Don Pedro e soltanto allora si accorse che stava parlando da solo. Cercò di ascoltarsi, il che era ancora più folle. Continuò, riuscì a riprendere il controllo e si infilò in un vicolo che percorse fino alla calle Abades, fermandosi di botto in mezzo alla strada, perché là, girata verso l'edificio dal quale era appena uscita, stava la sua ex moglie, Inés. Rideva, rideva così forte che si era chinata, la testa e i lunghi capelli in avanti, le mani strette sulle cosce. Stava guardando la luce che usciva dalla porta del Bar Abades e Falcón sapeva che non rideva perché fosse ubriaca, a lei non piacevano le bevande alcoliche. Rideva perché era felice.

La porta del bar si aprì per far passare un gruppetto di gente che usciva. Inés prese per un braccio uno del gruppo e si allontanò insieme a lui. Portava tacchi molto alti, come sempre, e camminava sull'acciottolato con una tale sicurezza da lasciare strabiliati. Per Falcón muovere i piedi fu più problematico. Quel momento aveva spalancato dentro di lui un abisso tenebroso: su un lato dell'abisso la sua vita precedente, quando era sposato, più felice, e sull'altro quel sé attuale, solitario, oscuro. E nel mezzo? La voragine, il precipizio, il pozzo senza fondo di quei terribili sogni per i quali l'unica cura era svegliarsi di soprassalto in una realtà ancora più implacabile.

La seguì. Ascoltò la sua allegria. Si trattava di battute sui giudici e sugli avvocati difensori. Fu un sollievo per lui capire che quei suoi compagni erano colleghi di lavoro, ma ogni riconoscibile risata di Inés gli si conficcava dentro e rimaneva piantata lì con tutta la forza di un toro alle spalle. La spensieratezza di lei era quasi insopportabile accanto al tormento nuovo di zecca di lui. E quando la pietra focaia della sua immaginazione incontrò la sega circolare dei sospetti, scintille crepitanti gli turbinarono nella testa.

In avenida de la Constitución il gruppetto chiamò i taxi e Falcón, tenendosi in ombra, cercò di vedere con chi sarebbe salita in macchina. Montarono in quattro sullo stesso taxi. Osservò la sua caviglia, la punta di pelle della scarpa scomparire nell'auto, la portiera richiudersi. Rimase lì, derelitto, a seguire con lo sguardo le rosse luci posteriori allontanarsi nel traffico.

Camminò fino al fiume, rimanendo nelle vie principali, non avendo nessun desiderio delle viuzze di El Arenal, dei turisti e del loro buonumore; sul puente San Telmo si fermò a metà strada, colpito dalle pubblicità sui palazzi di appartamenti della plaza de Cuba. Tío Pepe, Airtel, Cruzcampo, Fino San Patricio: sherry, telefoni e birra, ecco la Spagna di oggi, non c'è bisogno di altro.

Il fiume s'increspava, si spandeva sotto di lui. Gli venne in mente la prima moglie di Raúl Jiménez: la tortura di non sapere era stata atroce, insopportabile per una madre. Si chiese se lo avesse fatto da lì, dal punto in cui lui si trovava, poi ricordò ciò che aveva detto Consuelo Jiménez: una notte era scesa sulla sponda e si era buttata via. Immaginò lei galleggiare sulla corrente, l'acqua aprirsi per lambirle il viso, sfiorarle gli angoli degli occhi e la bocca finché non l'aveva ricoperta tutta. Poi il buio che tanto aveva agognato si era richiuso sopra di lei.

Trillo del cellulare. La stupidità di quel suono fu la benvenuta in mezzo alle sue divagazioni morbose. Portò il telefonino all'orecchio, udì il sibilo dell'etere e capì che era lui.

«Diga», disse calmo.

Nessuna risposta.

Aspettò, non volendo rompere l'incantesimo con parole superflue.

«Tu stai pensando, Inspector Jefe, che questa sia la tua indagine, ma dovresti sapere che io ho una storia da raccontare e, che tu lo voglia o no, me la lascerai raccontare. Hasta luego.»

XIV

Domenica 15 aprile 2001, casa di Falcón, calle Bailén, Siviglia

Falcón si destò con il cuore che gli martellava nel petto, ancora sotto l'effetto dell'adrenalina. Controllò il polso: novanta. Buttò le gambe giù dal letto, esausto ancor prima di aver cominciato la giornata. Gli scottava il viso e aveva i capelli bagnati di sudore come se avesse corso tutta la notte o, meglio, tutta la mattina. Si era coricato alle quattro, non aveva voluto tornare a casa prima.

Pedalò per un'ora sulla cyclette e si convinse di stare meglio. Fece la doccia e si vestì. Là dentro il mondo esterno sembrava morto. Bevve un caffè e mangiò del pane tostato insaporito con aglio e olio, la colazione di suo padre. Salì nello studio e mise i diari in ordine di data, osservando che la qualità dei volumi diminuiva con il passare degli anni: la carta più sottile, le rilegature non più cucite ma incollate e tutto quanto più malmesso, pagine staccate, perfino. Anche la scrittura era diversa. La mano dei primi diari quasi non era riconoscibile per quella di suo padre, le lettere ammassate, gli spazi disuguali, le righe sbilenche, accenti e tildi apparentemente sparpagliati a casaccio. Una scrittura insicura, instabile, quasi da squilibrato. Nei diari successivi la mano era più uniforme, ma si era trasformata nella bella grafia che Javier conosceva soltanto dopo il trasferimento in Spagna, negli anni '60.

E qui avveniva un salto: un diario terminava con l'estate del 1959 a Tangeri e il successivo cominciava con il mese di maggio del 1965 a Siviglia. Ma tutto era accaduto in quell'intervallo, sua madre e la sua matrigna erano morte, suo padre aveva dipinto i nudi Falcón, era diventato famoso e aveva lasciato il Marocco. Mancava il diario cruciale; ma in quale modo avrebbe dovuto usare le sue tecniche di poliziotto per ritrovarlo?

Era quasi l'una ed era atteso a colazione alla finca di suo fratello Paco a Las Cortecillas, a più di un'ora di macchina da Siviglia. Gli sarebbe piaciuto cominciare la lettura, ma sapeva che avrebbe dovuto smettere quasi immediatamente. Decise di leggere solo l'inizio a mo' di antipasto, un pincho prima del gran plato.

19 marzo 1932, Dar Riffen, Marocco

Oggi compio diciassette anni e Oscar mi ha regalato questo libro con le pagine bianche che mi ha detto di riempire. È passato quasi un anno da quello che ormai chiamo «l'incidente» e ho cominciato a pensare che, se non metto giù tutto mentre ancora è nella mia mente, finirò per dimenticare chi ero. Anche se, dopo dieci mesi di addestramento e di disciplina brutale nella Legione, sono già meno sicuro di ricordarlo. Per resistere alle giornate in caserma è meglio non pensare. Per resistere alle giornate sul campo è meglio non pensare. Durante l'azione io non riesco a pensare, accade tutto troppo in fretta. Quando dormo ho un solo sogno, al quale preferisco non pensare. E così non penso affatto. Lo spiego a Oscar e lui mi dice: «Non pensi, quindi non sei». Ammesso che significhi qualcosa. Mi dice che questo diario cambierà tutto e io spero che non sia troppo tardi, già la vita prima dell'«incidente» è meno definita. Ma non ha importanza ormai. La mia istruzione non significa nulla, se non che ho imparato a leggere e scrivere, il che è molto più di quanto sappia fare la maggior parte dei tontos della mia compagnia. I miei vecchi amici significano meno per me, la mia famiglia mi ha dimenticato, come se fosse morta. Chi sono io? Il mio nome è Francisco Luis González Falcón. Il primo giorno nella Legione il capitano ci ha detto che eravamo «novios de la muerte». Aveva ragione. Io sono fidanzato con la morte, ma non nel senso che intendeva lui.