Squillò il cellulare e sua sorella Manuela gli ricordò di passarla a prendere, lamentandosi subito dopo perché Paco l'avrebbe fatta lavorare prima di pranzo, e Javier le espresse la sua comprensione, ma senza ascoltare. Quante interferenze dalle inezie della vita!
Lasciarono la città con un sole splendente e si diressero a nord sulla strada di Mérida. Una volta sulla pianura ondulata e verdeggiante, la tensione di Javier si allentò; le pressioni della città, le vie strette, la folla, le orde di turisti, la difficoltà crescente delle indagini, si lasciò tutto alle spalle. Non aveva mai invidiato a Paco il suo amore per la vita semplice, gli spazi, i tori al pascolo nei prati, ma dall'assassinio di Raúl Jiménez in poi, la città, invece di affascinarlo, lo spaventava. Non era la prima volta che s'imbatteva in una processione notturna con la Vergine illuminata dalle candele, anzi, gli era capitato anche subito dopo essersi allontanato dalla scena di un delitto, ma la cosa non lo aveva turbato affatto. Non si era mai identificato con quella che giudicava la folle Mariolatria della città, eppure, due volte in due giorni, era rimasto sconvolto da ciò che in effetti era solo un manichino su una piattaforma portata a spalla; e la sera prima si era lasciato letteralmente prendere dal panico. Il bisogno di allontanarsi da tutto ciò o, meglio, di superarlo, era frutto dell'istinto, non vi era nulla di razionale nel suo comportamento. Scosse il capo e si rilassò sul sedile mentre l'auto attraversava il tranquillo paese di Pajanosas, di un bianco abbagliante.
Non appena arrivata alla finca, Manuela si cambiò d'abito, spogliandosi del vestito Elena Brunelli di lino rosso per indossare la tuta da veterinario. Paco prese il fucile e tre proiettili di sonnifero e tutti e tre salirono sulla Land Rover per andare a cercare uno dei retintos di Paco che era stato incornato da un altro toro.
Lo trovarono da solo sotto un leccio, un toro adulto che era stato già venduto per la Feria di quell'anno. Paco mise il proiettile in canna e lo colpì all'anca. Il toro partì al trotto tra gli alberi e l'auto lo seguì, finché l'animale non si fu sdraiato sull'erba in una radura soleggiata, confuso dalla debolezza che sentiva nelle zampe posteriori. Scesero tutti dalla macchina e, mentre si avvicinavano, il toro tornò ad alzare il muso, ritrovando un resto di forza nei muscoli del collo possente. L'occhio primordiale li fissò e per un istante Javier vide dentro la testa dell'animale: non riconobbe la paura, soltanto un'immensa percezione della propria potenza, consumata a poco a poco dal tranquillante.
La testa ricadde sull'erba. Manuela disinfettò la ferita, applicò un paio di punti, praticò un'iniezione di antibiotico e prelevò un campione di sangue. Paco, parlando in continuazione, teneva strette le corna dalla punta liscia e aguzza, guardandosi intorno per vedere se vi fossero tori aggressivi in giro. Javier batté qualche colpetto affettuoso sul fianco dell'animale intontito e all'improvviso desiderò possedere quel potente senso di sé che il toro gli aveva rivelato per un attimo. Era la complessità a rendere gli uomini così fragili. Se soltanto riuscissimo a essere concentrati come quel toro, così consapevole della sua potenza, pensò, invece di avere sempre davanti agli occhi le nostre assillanti, patetiche esigenze…
Manuela iniettò uno stimolante all'animale e tutti e tre si ritirarono sulla Land Rover. Il muso si rialzò e l'animale cominciò immediatamente a recuperare le forze, avvertito dall'istinto del pericolo che correva rimanendo in quella posizione. Sulle quattro zampe ora, si concentrò, si costrinse a muoversi e, al trotto, scomparve tra gli alberi.
«Un esemplare fantastico», disse Paco. «Sarà guarito completamente per la Feria, vero, Manuela?»
«Avrà ancora la ferita, ma saprà farsi valere.» «Non devi perderlo, Javier. Lunedì 23 aprile sarà a La Maestranza e non c'è nessuno, nemmeno José Tomás che possa avere la meglio su quel toro», disse Paco. «Pepe ha saputo qualcosa?»
«Ancora niente.»
«Avrà la sua occasione, tra qui e la Feria qualcuno dovrà essere sostituito per forza, è una questione di numeri.»
Consumarono un pranzo a base di agnello, arrostito nel forno di mattoni che Paco aveva restaurato nella proprietà e dove veniva cotto il pane. Gli invitati erano una vera folla, suoceri, zii, zie, la moglie di Paco e i quattro bambini. Javier dimenticò se stesso nella riunione di famiglia e bevve una gran quantità di vino rosso, più del consueto. Dopo pranzo andarono tutti a riposare e Manuela dovette svegliare Javier che dormiva, immobile come un idolo caduto.
Stava scendendo la sera quando si avviarono all'auto, Javier ancora intontito. Paco gli teneva il braccio intorno alle spalle. Gli addii furono prolungati.
«Lo sapevate che papà era stato nella Legione?» domandò Javier.
«Quale Legione?» chiese Paco.
«El Tercio de Extranjeros, in Marocco negli anni '30.»
«Non lo sapevo», disse Paco.
«Ah!» esclamò Manuela. «Stai sgombrando lo studio. Mi domandavo quando ti saresti deciso, fratellino.»
«Sto solo leggendo certi diari che ha lasciato, tutto qui.»
«Non ci ha mai parlato di quello… della Guerra civile», osservò Paco. «Non ricordo di avergli mai sentito dire nulla sulla sua vita prima di Tangeri.»
«Fa anche menzione di un incidente…» disse Javier. «Qualcosa che sarebbe successo quando aveva sedici anni e che lo avrebbe costretto ad andare via di casa.»
Fratello e sorella scossero la tesa.
«Ce lo dirai, vero, fratellino, se mai tu dovessi trovare un altro di quei nudi scivolato dietro una cassa o una cosa del genere? Voglio dire, sarebbe solo giusto, no?»
«Ce ne sono centinaia. Scegliete pure.»
«Centinaia?»
«Centinaia di ognuno.»
«Non sto parlando di copie», obiettò Manuela.
«Nemmeno io… sono tutti 'originali', tutti dipinti da lui.»
«Spiegati meglio, fratellino.»
«Non ha fatto altro che dipingerli all'infinito, cercando di ritrovare… non so, il segreto dell'opera originaria. Sono tutti senza valore e lui lo sapeva, per questo voleva che fossero distrutti.»
«Se è stato papà a dipingerli, non possono essere senza valore», protestò Manuela.
«Non sono nemmeno firmati.»
«A questo si può rimediare», affermò Manuela. «Come si chiamava quell'orrendo individuo di cui si serviva? Un eroinomane, mi pare. Abitava dalle parti dell'Alameda.»
I due fratelli la fissarono, Javier ricordando le parole della lettera di suo padre. Manuela restituì lo sguardo, gli occhi scintillanti.
«Eh! Que cabrones sois!» disse lei, con il peggiore accento andaluso. Gli altri risero.
Javier non provò nemmeno a domandare se sapessero come mai il loro cognome fosse Falcón, cioè il cognome della loro madre da ragazza, invece di González, come sarebbe stato corretto. I diari avrebbero chiarito anche questo, Paco e Manuela non sapevano nulla.
Guidò Manuela fino a Siviglia, con Javier sprofondato in un angolo del sedile, appoggiato alla portiera. Man mano che la città invisibile si avvicinava, la tensione andava crescendo in lui, la paura si apriva una strada nelle sue viscere. La vaga luminosità arancione comparve nel cielo e Falcón si ritirò dentro la sua testa, nelle vie strette della mente, negli oscuri vicoli senza uscita dei pensieri incompiuti, nelle avenidas affollate delle cose ricordate a metà.