10 febbraio 1938, Teruel
Trovo Oscar nell'ospedale da campo, soffre moltissimo nonostante la morfina. Sa che non sopravvivrà alla ferita. Mi ha lasciato i suoi libri e gli scacchi e mi ha dato istruzioni severissime di bruciare i suoi diari senza leggerli. Piange dal dolore della ferita e mentre mi bacia sento le sue lacrime calde sulla faccia.
23 febbraio 1938, Teruel
Abbiamo seppellito Oscar stamani. Dopo ho bruciato i suoi diari, ho ubbidito alle sue istruzioni e ho lasciato cadere il primo quaderno nel fuoco senza aprirlo. Mentre bruciava non ho resistito alla tentazione di sfogliare le pagine del secondo, parlavano tutte di un amore che pareva non corrisposto. Non menzionava mai il nome della ragazza, ma la cosa non mi ha sorpreso perché non parlava mai di fatti personali, salvo quando mi ha detto di aver sparato a suo padre. Nel terzo aveva cominciato a usare dialoghi immaginari, più facili della sua prosa pesante. Ho avuto un soprassalto nel leggere parole dette da me e sono arrivato alla conclusione strabiliante che ero io l'amante crudele. Ne ho avuto la conferma quando, infuriato per qualche mia osservazione inconsapevole, mi ha chiamato «Die Künstlerin». Ho bruciato il resto senza leggerlo.
Ora sono seduto qui a scrivere, una candela stretta fra le ginocchia. Mi è venuto in mente che forse Oscar ha insistito tanto per farmi tenere un diario nella vana speranza che io mi rivelassi a lui. Deve essere rimasto deluso dalle mie interminabili annotazioni di carattere militare.
Non provo nessun disgusto sebbene Oscar fosse fisicamente repellente. Sono triste per aver perso il mio maestro e amico, l'uomo che è stato per me più del mio vero padre. Sono di nuovo solo senza quella sua figura brutale, senza la sua mente sferzante, senza la sua sicura guida militare. Ho pensieri incomprensibili. In me è stato disturbato qualcosa che posso riconoscere soltanto come un bisogno privo di forma. Non lo comprendo. Rifiuta di lasciarsi definire.
15 aprile 1938, Lérida
Sono rimasto privo di sensi per qualche ora e mi hanno trasportato all'ospedale. Devono ricordarmi che lo abbiamo ripreso noi quasi due settimane fa. Non ho più scritto nulla dal funerale di Oscar. Sono furioso con me stesso perché non ricordo se avessi fatto qualche progresso con i miei pensieri. Quel «bisogno» di cui ho scritto è un vuoto nella mia mente. Gli eventi si stanno al contrario ridisegnando. L'avanzata senza soste dopo che a Teruel abbiamo messo in fuga i repubblicani. La traversata del fiume Ebro e la presa di Fraga. Perfino l'assalto a Lérida comincia a prendere forma. Ma per quanto mi sprema le meningi non riesco a ritrovare ciò che stavo pensando, che cosa era scritto nei diari di Oscar che ho sfogliato. Mi sento privato di qualcosa senza sapere perché.
18 novembre 1938, Ribarroya
Questa è l'ultima testa di ponte dei repubblicani. Ormai sono tutti al di là dell'Ebro e la situazione è tornata quella di luglio tranne per il fatto che ora cade la neve e che ventimila uomini hanno perso la vita sulle montagne. Ricordo tutte quelle partite a scacchi con Oscar prima che imparassi a ragionare in modo più sottile. Partivo sempre all'attacco, mentre Oscar giocava in difesa, finché, avendo capito i miei piani poco segreti, passava a un contrattacco feroce e mi spazzava via dalla scacchiera. Accade la stessa cosa ai nostri eserciti. I repubblicani attaccano e nel farlo rivelano la concentrazione delle loro forze e la pochezza dei loro scopi. Noi ci difendiamo, regoliamo la nostra reazione e li respingiamo in una posizione dove sono più deboli di quanto non fossero stati prima. Come diceva Oscar: «È sempre più facile reagire che agire per primi. Scoprirai che questo vale nell'arte come nella vita».
26 gennaio 1939, Barcellona
Ieri siamo entrati nella città deserta dietro i carri armati che non hanno incontrato resistenza. Abbiamo attraversato il Llobregat l'altro ieri e già si avvertiva la disperazione sospesa sul crollo della volontà dei repubblicani. Non c'era nessun senso di trionfo. Eravamo esausti al punto di non capire nemmeno se eravamo contenti di essere vivi. La sera avevamo il controllo della città ed è stato allora che i nostri sostenitori si sono sentiti abbastanza sicuri e si sono avventurati nelle strade per esultare e, ovviamente, per vendicarsi sugli sconfitti. Non li abbiamo fermati.
XV
Lunedì 16 aprile 2001, casa di Falcón, calle Bailén, Siviglia
Un'altra sveglia a ventimila volt, come se avesse avuto un attacco di cuore e fosse stato riportato in vita dal defibrillatore. L'orologio gli comunicò che erano le sei, il che significava un sonno di un'ora e mezzo, o meglio, non un sonno, ma una specie di morte. Il cervello: strano organo che lo teneva sveglio con pensieri tormentosi su suo padre, sulla Guerra civile, sull'arte, sulla morte… e poi, proprio quando stava per rinunciare alla possibilità di riuscire mai più a dormire, buio totale. Nessun sogno. Nessun riposo, ma un attimo di respiro. Il cervello, incapace di sostenere più a lungo quel farfugliare incessante, aveva abbassato la saracinesca.
Con il cuore in tumulto, si trascinò alla cyclette e cominciò a pedalare finché non ebbe la sensazione di essere inseguito, tanto che si girò a guardarsi alle spalle. Si fermò e, smontando dal sellino, si domandò se non gli facesse male, psicologicamente, sprecare tanta energia per non andare da nessuna parte. Una stasi agitata. Ma ne aveva bisogno, per acquietare quei pensieri ciclici. Ciclici? Sì, stava semplicemente facendo al corpo ciò che faceva alla mente. Corse sino al fiume e proseguì fino alla Torre del Oro e ritorno. Non incontrò nessuno.
Arrivò per primo in ufficio dopo aver guidato attraverso le vie silenziose, e sedette alla scrivania, desolato in quell'arredamento spartano e nel silenzio massiccio di cemento della Jefatura. Ramírez si presentò alle otto e trenta e Falcón lo accolse con la notizia della scomparsa di Eloisa Gómez. Controllò se fossero stati segnalati incidenti, ma l'attività era stata scarsa; dopo una settimana di appassionata Mariolatria e di baccanali Siviglia era troppo sfinita per avere la forza di sollevare un ricevitore.
Ramírez tirò fuori la busta che aveva ritirato dalla sezione informatica. Tutte le otto immagini del cameraman del cimitero erano là e l'operatore aveva reso più nitidi i due fotogrammi migliori. Ma non potevano comunque servire; gli occhi non si vedevano, il naso era in ombra sotto la visiera del berretto da baseball e la linea del mento era nascosta dal collo della giacca. Il colore e la grana dalla ristretta porzione di pelle visibile non erano distinguibili. L'operatore del computer aveva mostrato le foto a un esperto di televisione a circuito chiuso, il quale aveva azzardato l'ipotesi che l'assassino fosse maschio, tra i venti e i quarant'anni.
«Non ci aiuterà», disse Ramírez, «ma almeno avremo qualcosa da servire sul piatto del Juez Calderón. Il nostro primo avvistamento dell'assassino… sempre meglio che nessun avvistamento.»
«Ma chi è?» domandò Falcón, sorprendendo Ramírez con un'improvvisa esplosione di collera. «Agisce da solo? Lo paga qualcuno? Qual è il suo movente?»
«Siamo poi sicuri che per la vittima fosse uno sconosciuto?» domandò a sua volta Ramírez, assumendo il tono di Falcón.
«Io sì. Non vorrei doverlo provare in tribunale, ma sono certo che abbia avuto le informazioni dalle Mudanzas Triana, che abbia usato Eloisa Gómez per entrare nell'appartamento e che per uscire abbia atteso che arrivasse la domestica. E che sia stato fatto tutto per confonderci.»
«Allora credo che dovremmo far venire qui Consuelo Jiménez e metterla sotto torchio a proposito dell'avvistamento… stare a vedere se crolla», suggerì Ramírez. «È la sola persona che fosse vicina alla vittima, in possesso di tutte le informazioni e in possesso di un movente solido.»