«A questo punto preferisco lavorare con Consuelo Jiménez invece che contro di lei. Devo vederla a mezzogiorno per stabilire chi fossero le persone che avevano rapporti di affari con Jiménez e dividerle tra quelle che avevano un motivo per ucciderlo e quelle che non l'avevano.»
«Questo non conferisce a quella donna il controllo dell'indagine, Inspector Jefe?»
«Non proprio… perché noi svolgeremo altre indagini indipendenti. Lei ha trovato quel Joaquín López del Cinco Bellotas. Merita di essere interrogato. E Pérez può andare in Comune a cercare i nominativi delle aziende che hanno avuto contatti con la commissione per gli appalti dell'Expo '92. Fernández andrà all'ufficio Licenze e tirerà fuori dei nomi, e dopo potrà dare un'occhiata al dipartimento d'Igiene e ai vigili del fuoco e solo quando avremo controllato tutto, fino a quelli che frequentano i ristoranti per vendere fiori ai clienti che dimenticano di essere romantici, solo allora lasceremo in pace la signora Jiménez. Perciò lavoreremo con lei, ma dovrà sentire la nostra pressione sul collo.»
«E il racket locale?»
«Se si fosse trattato di questo, sarebbe stato incendiato uno dei ristoranti, non avrebbero torturato e ucciso il proprietario. Ma terremo gli occhi aperti.»
«La droga?» suggerì Ramírez. «Visto che abbiamo a che fare con un comportamento estremo, con una violenza da psicopatico…»
«Parli con la squadra narcotici, veda se Raúl Jiménez o qualcuno collegato con lui sia mai stato fermato o arrestato per spaccio.»
Gli altri uomini della squadra arrivarono nel quarto d'ora successivo e Falcón li mise al corrente, mostrò le immagini riprese dalla videocamera e li spedì a portare a termine una giornata di lavoro pesante e noioso. Si informò da Serrano sul cloroformio e sugli strumenti chirurgici; nessuna notizia dagli ospedali, che stavano ancora controllando le loro scorte. E stava proseguendo la ricerca nei laboratori. Poi mandò Baena alle Mudanzas Triana per interrogare i dipendenti e accertare che cosa avessero fatto il sabato mattina durante il funerale di Raúl Jiménez. Uscirono tutti. Falcón parlò lungamente al telefono con Calderón, che lo aveva chiamato, nonché con il Comisario Lobo. Normalmente quelle interminabili ripetizioni lo avrebbero irritato, ma quel giorno furono i suoi interlocutori a concludere per primi la telefonata. Subito dopo si dedicò alle sue scartoffie, cosa che non faceva mai il lunedì mattina, specialmente durante un'indagine. Uscì presto per andare all'appuntamento con la signora Jiménez, al ristorante.
Cominciarono col guardare il video dei partecipanti al funerale. La signora Jiménez diede un nome a tutti e spiegò il loro rapporto con suo marito. Non c'era niente di insolito tra la folla. Ricostruirono le ultime ventiquattr'ore di Raúl Jiménez e poi la sua ultima settimana, gli incontri, le colazioni di lavoro, i ricevimenti, le discussioni con l'impresa di costruzioni, con il vivaista che aveva progettato il giardino, con il tecnico dell'aria condizionata. Fornì un elenco di società con le quali il marito aveva trattato negli ultimi sei anni, persone che avevano avuto successo negli affari, altre che avevano fallito, altre ancora con le quali aveva interrotto i rapporti. Era difficile credere, dopo quanto aveva detto Ramón Salgado, che gli unici possibili nemici di Raúl Jiménez fossero i macellai, i pescivendoli e i fioristi che avevano perso le forniture ai ristoranti. Gli sguardi di Consuelo Jiménez al suo costoso orologio si fecero più frequenti e Falcón si decise a porre la domanda importante.
«Abbiamo controllato tutto tranne la commissione dell'Expo '92», disse. «Posso vedere i documenti sull'Expo?»
«Quali documenti?»
«I dati in possesso di suo marito.»
«Non sono qui», replicò la signora Jiménez, «e nemmeno a casa.» Chiamò la segretaria.
Falcón le rivolse la stessa domanda e ricevette una risposta ben preparata dalla donna, che guardava la signora Jiménez con l'aria di aspettarsi un aumento di stipendio. Quest'ultima cominciò a fargli fretta, a invocare la scusa dei figli. Falcón rimase seduto a guardarla mentre, in piedi accanto alla porta, tamburellava nervosamente sulla borsetta.
«Mi è stata molto utile», disse e lo pensava veramente, perché la visita calcolata di lei a casa sua la sera prima e la sua collaborazione selettiva di quella mattina gli avevano rivelato per la prima volta la possibilità che la volitiva Consuelo Jiménez si fosse trasformata, per ambizione, in una donna senza scrupoli.
Andò a casa per colazione. Encarnación gli aveva lasciato una grossa scodella di fabada asturiana: fagioli, chorizo, morcilla. Non aveva appetito, ma sperava che il piatto pesante e i due bicchieri di vino lo inducessero al sonno. Si sdraiò, la mente piena di dubbi a proposito del suo modo di condurre le indagini. Lo stomaco brontolava come una vecchia conduttura intasata, i muscoli delle gambe si contraevano: stasi agitata, ancora una volta. Invocò il sonno, ma inutilmente. Allora decise di telefonare a Ramón Salgado, ricordando subito dopo che quel giorno Salgado era andato a prendere sua sorella a San Sebastián per portarla a Madrid.
Le mani erano sudate sul volante mentre tornava in ufficio, le viscere irritate per l'unto della fabada, la lingua che pareva foderata di camoscio. Non riusciva a fissarsi su un solo pensiero e a portarlo alla sua conclusione. Un senso di disperazione scivolò come grasso rancido in quel miscuglio e permeò tutto. Si fermò in República Argentina e telefonò al dottore, il quale non poteva riceverlo fino all'indomani mattina. Aveva davanti a sé la notte da superare e l'idea lo agghiacciò, pur comprendendo quanto fosse ridicola. Ripensò a com'era stato solo cinque giorni prima, a quanto fosse stato bello quel senso di equilibrio. Sentì le lacrime a fior di pelle e dovette premere la fronte sul volante. Ma che gli stava succedendo?
Sceso dall'auto, si asciugò gli occhi e si riscosse, entrò nel bar più vicino e ordinò qualcosa che non beveva mai: brandy. Questo bevevano sempre nei film. Il grande riequilibratore del sistema nervoso. Il barman recitò dei nomi, Soberano, Fundador. «Uno qualsiasi», disse Falcón, e ordinò anche un café solo, per nascondere l'odore nell'alito.
Il liquore gli spaccò in due i polmoni e per un attimo rimase senza fiato. Giocherellò con la tazzina del caffè, spaventato al pensiero che la mano sul bancone d'acciaio non fosse la sua. La scosse, piegò le dita, si tastò il viso. Il barman lo osservava, asciugando una fila di bicchieri.
«Un altro?» domandò.
Falcón annuì, incapace di credere a ciò che stava facendo. Il liquido ambrato fu versato nel bicchiere e Falcón invidiò la mano ferma del barman… ah, poter reggere una bottiglia sull'orlo di un bicchiere senza perderne totalmente il controllo. Trangugiò il secondo brandy, si scottò il palato con il caffè, sbatté una banconota sul banco e uscì.
Nel parcheggio della Jefatura si calmò, riuscì a rallentare il ritmo dei pensieri, strizzandosi la testa tra le mani. Nel suo ufficio era accesa la luce. Ramírez, le spalle alla finestra, stava leggendo un rapporto e lo commentava con qualcuno seduto davanti alla scrivania. Si accorse che la gente lo guardava in maniera strana mentre saliva le scale e deviò verso la toilette per controllarsi allo specchio. Aveva i capelli ritti e arruffati come un mare in tempesta, le guance colorite e gli occhi rossi, il colletto della camicia fuori dal bavero della giacca e il nodo della cravatta allentato. Il guscio si stava spezzando. Si inumidì il viso con l'acqua fredda, ma le viscere in subbuglio lo costrinsero a chiudersi in un gabinetto. Cibo avariato. Forse si trattava soltanto di questo, pensò disperatamente, la fabada di Encarnación andata a male.