Al suo risveglio fuori albeggiava. Provava la sensazione di essere stato schiacciato da un rullo compressore, tutte le articolazioni dolenti, le ossa rotte, i lineamenti distorti. Giaceva in una pozza di urina, tremante per il freddo, le gambe che pungevano. Pulì il pavimento e salì al piano superiore per accasciarsi sotto la doccia, accucciato sulla pedana. Era ancora ubriaco e i denti in bocca parevano ciottoli.
Gocciolante, si trascinò fino al letto, si tirò le coperte sopra la testa. Dormì e fece di nuovo il sogno del pesce. Era quasi bello guizzare nell'acqua verdeazzurra, ma la libertà dell'istinto perfetto era impedita dalla torsione improvvisa e violenta, dallo strattone nelle viscere che lo stava rivoltando come un guanto.
Martedì 17 aprile 2001, casa di Falcón, calle Bailén, Siviglia
La luce selvaggia gli penetrò nella testa, punte d'acciaio lampeggiarono, scintillarono nel cranio buio. Si sentiva gli organi delicati come porcellana. Gli si mozzò il fiato per il dolore quasi estatico dell'ubriachezza.
Un'ora e mezzo più tardi, lavato, sbarbato, vestito e pettinato accuratamente, si sedeva di fronte ai medico, esitante come un uomo afflitto da emorroidi elefantesche.
«Javier…», esclamò il dottore, rimanendo all'istante senza parole.
«Lo so, dottor Fernando, lo so», disse Falcón.
Fernando Valera era figlio del medico di suo padre e aveva dieci anni più di lui, ma sembrava che le ultime settimane avessero livellato le loro età. I due uomini si conoscevano bene, tutti e due aficionados de los toros.
«Venerdì ti ho visto in mezzo a una folla di gente alla estación de Santa Justa e avevi un aspetto del tutto normale», disse il dottor Valera. «Che cosa ti è successo?»
La dolcezza del tono di voce emozionò Falcón, che dovette ricacciare indietro le stupide lacrime affiorate al pensiero di essere finalmente arrivato in un rifugio dove qualcuno si sarebbe preso cura di lui con affetto. Descrisse i sintomi fisici, il senso di ansia, il panico, il battito furioso del cuore, l'insonnia. Il medico gli rivolse qualche domanda sul suo lavoro, fu menzionato il caso Raúl Jiménez, che il dottore aveva appreso dai giornali, e Falcón ammise che era stata la vista del volto di quell'uomo a produrre in lui quella specie di reazione chimica.
«Non posso riferire i particolari, ma aveva a che fare con i suoi occhi.»
«Ah, sì, tu sei molto sensibile per tutto ciò che riguarda gli occhi… come lo era tuo padre.»
«Davvero? Non lo ricordo.»
«Suppongo che sia del tutto naturale per un pittore preoccuparsi della vista, ma negli ultimi dieci anni della sua vita tuo padre aveva sviluppato una vera… sì, la parola è questa, una vera ossessione per la cecità.»
«L'idea della cecità?»
«No, no, temeva di diventare cieco, era sicuro che sarebbe diventato cieco.»
«Non lo sapevo.»
«Mio padre aveva cercato di liberarlo da quell'ossessione scherzandoci su, dicendogli che così facendo avrebbe rischiato la cecità isterica. Francisco era terrorizzato all'idea», soggiunse il dottore. «Però, Javier… noi siamo qui per parlare di te. A mio giudizio questi sono i classici sintomi di uno stress acuto.»
«Non sono mai stressato. Faccio questo lavoro da vent'anni e non ho mai sofferto di stress.»
«Hai quarantacinque anni.»
«Questo me lo ricordo.»
«È a quest'età che l'organismo comincia ad avvertire i primi segni di cedimento. Il corpo e la mente. Le pressioni sulla mente creano i sintomi nel corpo. Ne vedo continuamente di questi casi.»
«Perfino a Siviglia?»
«Forse ancora di più a Sevilla la maravilla. È uno sforzo dover essere sempre contenti perché così ci si aspetta che siamo. Vivere nella più bella città della Spagna non ci rende immuni dagli effetti della vita moderna. Diciamo a noi stessi che siamo obbligati a vivere bene… non abbiamo scuse. Siamo circondati da gente che sembra felice e contenta, persone che battono le mani e ballano per la strada, che cantano per il piacere di far sentire la propria voce… e credi forse che anche loro non soffrano? Pensi che quella gente sia esclusa, chissà come, dalla lotta che è propria della condizione umana, morte, malattie, amori infelici, miseria, delitti e tutto il resto? Siamo tutti un po' pazzi.»
Falcón si chiese se il dottore avesse parlato così per consolarlo del fatto di essere impazzito.
«Stavo cominciando a pensare di essere completamente matto», ammise.
«Tu sei sottoposto a una pressione molto particolare, ti trovi coinvolto nei momentanei crolli che periodicamente si manifestano della nostra civiltà, quando le condizioni diventano intollerabili e il filo si spezza. E tu devi affrontarne le conseguenze. Non è un'impresa facile. Forse dovresti parlarne con qualcuno… qualcuno che conosca dall'interno il tuo lavoro.»
«Lo psicologo della polizia?»
«È lì per questo.»
«Entro un'ora tutti saprebbero che Javier Falcón sta dando i numeri.»
«Non esiste il segreto professionale?»
«Si viene a sapere sempre tutto. Alla Jefatura è come vivere in una caserma o in un collegio, tutti sanno che stai lasciando la tua ragazza ancor prima che lo sappia tu stesso.»
«Parli per un'esperienza dolorosa, Javier.»
«Nel mio caso è stato ancora peggio. Essendo Inés una fiscal e una fiscal molto in vista e ben poco riservata… Forse non dovremmo cominciare da Inés, dottor Fernando.»
«Allora non vuoi consultare lo psicologo della polizia?»
«Voglio qualcosa di più privato. Non m'importa pagare. Forse è giusto, forse parlarne potrebbe aiutarmi.»
«Non è facile trovarlo e poi nella scienza della mente gli approcci sono molti e diversi. Qualcuno percepisce la cosa unicamente come una condizione clinica, uno squilibro chimico che deve essere normalizzato con i farmaci. Altri usano farmaci e psicoterapia, con un approccio teorico fondato, diciamo, su Jung o Freud, tra gli altri.»
«Avrei bisogno di un consiglio.»
«Io posso dirti soltanto che il tale è un bravo psicologo, che il talaltro ha un approccio esclusivamente farmacologico, che il tizio è un freudiano serio. Potresti non gradire i loro metodi. Sai, il genere: 'Che cosa c'entra la mia caca di quando ero bambino con i miei problemi di adulto?' Ma non significa che non sappiano fare bene il loro mestiere.»
«Credi ancora che dovrei andare dallo psicologo della polizia?»
«Avresti anche il vantaggio della disponibilità.»
«Vorresti dirmi che nella ciudad de alegría,Sevilla la maravilla, non esiste un solo strizzacervelli disponibile? Somos todos chiflados!»
«Soffriamo tutti», disse il dottor Fernando. «Gli spagnoli, non solo i sivigliani, superano i loro problemi con… la fiesta. Parliamo, cantiamo, balliamo, beviamo, ridiamo e facciamo baldoria una notte dopo l'altra. È il nostro modo di affrontare il dolore. I nostri vicini di casa, i portoghesi, sono molto diversi.»
«Sono depressi per costituzione», disse Falcón. «Si sono arresi alla condizione umana.»
«Non credo. Sono malinconici per natura, come i nostri galiziani, dopotutto hanno l'Atlantico da affrontare ogni giorno. Ma amano molto i piaceri della carne, sarebbero capaci di suicidarsi in massa se nel loro paese venisse abolito il pranzo, sanno mangiare, bere e godersi le belle cose.»
«Sì», convenne Javier, cominciando a essere interessato. «E gli inglesi? Mio padre aveva una grande ammirazione per gli inglesi. Come affrontano la vita? Sono così riservati, inibiti…»