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«Una sveltina nel vero senso della parola», osservò Ramírez, prevedibile.

Altre riprese notturne. Stesso schema fino a quando vi fu un brusco cambiamento di scena e la telecamera mise a fuoco un corridoio nel quale la luce penetrava da una porta aperta in fondo a sinistra. Poi l'obiettivo avanzò lungo il corridoio, rivelando un riquadro più chiaro sulla parete di fondo e un gancio sopra di esso. I tre uomini si irrigidirono di colpo, consapevoli che quello ripreso era il corridoio che conduceva alla stanza dove erano seduti in quel momento. La mano di Ramírez ebbe uno scatto in quella direzione. Un sobbalzo della telecamera. La tensione crebbe mentre la mente dei tre veniva invasa dall'impressione di essere sul punto di vedere qualcosa di orribile. L'obiettivo raggiunse il limite dell'area illuminata, il microfono colse una specie di gemito proveniente dalla camera, un lamento tremolante, acuto, uno straziante gemito d'agonia. Falcón provò il bisogno di deglutire, ma la gola non gli ubbidì. Era completamente asciutta.

«Joder!» esclamò Ramírez, per spezzare la tensione. La telecamera ruotò e un istante dopo le riprese proseguirono nella stanza. Falcón era così coinvolto da quelle immagini che quasi si aspettava di vedere loro tre, seduti davanti al televisore. Dapprima l'obiettivo mise a fuoco il televisore, una confusione di onde e di tremolii a quella distanza, ma non tali da non lasciar distinguere una donna che masturbava un uomo le cui natiche nude si contraevano a ritmo.

L'inquadratura si allargò, mentre Falcón era ancora disorientato dal contrasto fra i suoni precedenti e le immagini. La faccia rivolta verso lo schermo del televisore, Raúl Jiménez era inginocchiato sul tappeto persiano, il lembo della camicia penzolante sulle natiche, i calzini fino al polpaccio, i pantaloni in un mucchio sul pavimento dietro di lui. Carponi davanti a lui stava una ragazza dai lunghi capelli neri, la testa così immobile da far capire a Falcón che gli occhi fissavano un punto sulla parete e che i pensieri della donna non erano lì mentre emetteva gli appropriati versi di incoraggiamento. Poi lei cominciò a girare la testa e la telecamera si spostò con una serie di inquadrature disordinate fuori dalla stanza.

Falcón si era alzato in piedi, urtando con le cosce lo spigolo della scrivania. «Era lì!» esclamò. «Era… voglio dire, era già lì da prima!»

Ramírez e Calderón sobbalzarono sulla sedia all'esclamazione di Falcón. Il giudice si passò le dita tra i capelli, visibilmente scosso, scrutando la porta dalla quale la telecamera aveva guardato nella stanza. Preso dall'agitazione, Falcón non sapeva più che cosa stesse guardando, se finzione o realtà. Si riscosse, compì un passo indietro, cercò di liberare la vista da ciò che aveva nel cervello. C'era qualcuno in piedi sulla soglia. Falcón serrò per un attimo gli occhi, li riaprì. Sì, aveva già visto quella persona. Il tempo decelerò e Calderón attraversò la stanza con la mano tesa.

«Señora Jiménez», salutò, «Juez Esteban Calderón. Mi permetta di porgerle le mie condoglianze.»

Le presentò Ramírez e Falcón, e la signora Jiménez, con un evidente sforzo per fare appello a tutta la sua dignità, entrò nella camera come se dovesse scavalcare un cadavere e strinse la mano al giudice e ai poliziotti.

«Non l'aspettavamo così presto», osservò Calderón.

«Non c'era molto traffico. L'ho spaventata, Inspector Jefe?»

Falcón si ricompose; la sua espressione, probabilmente, aveva conservato una traccia del profondo turbamento provato poco prima.

«Che cosa stavate guardando?» domandò la signora Jiménez assumendo il controllo della situazione, ovviamente un'abitudine per lei.

Si volsero tutti verso lo schermo: effetto neve e fruscii.

«Non l'aspettavamo…» cominciò Calderón.

«Che cos'era, Señor Juez? Questo è il mio appartamento. Mi piacerebbe sapere che cosa stavate guardando sul mio televisore.»

Mentre Calderón sosteneva la pressione della donna, Falcón ebbe modo di osservarla indisturbato e sebbene fosse certo di non conoscerla, quanto meno identificava il tipo: era quel genere di donna che avrebbe potuto presentarsi a casa di Falcón padre, quando il grand'uomo era ancora vivo, per comprare uno dei suoi ultimi lavori. Non le tele speciali che lo avevano reso famoso, tutte opere da un bel pezzo collocate presso i collezionisti americani e i musei di tutto il mondo; quella donna avrebbe cercato i più abbordabili lavori su Siviglia, i particolari di edifici: una porta, la cupola di una chiesa, una finestra, un balcone. Una donna di gusto, con o senza marito ricco al guinzaglio, desiderosa di possedere un frammento dell'opera del vecchio artista.

«Stavamo guardando una cassetta che è stata lasciata nell'appartamento», spiegò Calderón.

«Non una di quelle di mio marito…» soggiunse la signora Jiménez, con un'esitazione calcolata ad arte, per far loro sapere che precisare «pornografica» non sarebbe stato necessario. «Avevamo pochi segreti… e ho potuto vedere gli ultimi secondi del filmato che stavate guardando.»

«Una cassetta, Doña Consuelo», intervenne Falcón, «lasciata qui dall'assassino di suo marito. Noi siamo i funzionari che condurranno le indagini sulla morte del signor Jiménez e ho ritenuto importante vedere il filmato immediatamente. Se avessimo immaginato che sarebbe arrivata così presto…»

«Ci conosciamo, Inspector Jefe? Ci siamo già incontrati?»

Si girò a guardarlo in faccia, il soprabito scuro dal collo di pelliccia aperto sull'abito nero: non certo il tipo da farsi sorprendere abbigliata in modo inappropriato, qualsiasi fosse l'occasione. Lo investì con tutta la forza del suo fascino. L'acconciatura dei capelli biondi non era perfetta come nella foto sulla scrivania, ma dal vivo gli occhi erano più grandi, più azzurri. E più gelidi. Una linea scura disegnava il contorno delle labbra, che controllavano e dirigevano la voce dominatrice, in caso qualcuno fosse stato tanto sciocco da pensare di poter disubbidire a quella bocca morbida, arrendevole.

«Non credo», rispose Falcón.

«Falcón…» ripeté la donna, giocherellando con gli anelli sulle dita mentre lo osservava da capo a piedi. «No, è troppo ridicolo.»

«Che cosa, se posso chiederlo, Doña Consuelo?»

«Che l'artista Francisco Falcón possa avere un figlio Inspector Jefe del Grupo de Homicidios de Sevilla.»

Lo sa, pensò Falcón… Chissà come aveva fatto.

«Dunque… questo filmato», riprese la signora Jiménez, girandosi verso Ramírez, il soprabito scostato, le mani sui fianchi.

Gli occhi di Calderón sfiorarono il seno della donna prima di fissarsi in quelli di Falcón al di sopra della spalla sinistra di lei. Falcón scosse lentamente il capo.

«Non credo vi sia qualcosa che lei debba vedere, Doña Consuelo», obiettò il giovane giudice.

«Perché? È violento? Non mi piace la violenza», affermò la donna, senza distogliere lo sguardo dalla faccia di Ramírez.

«Non c'è violenza fisica», spiegò Falcón, «ma credo che lo troverebbe sgradevole e invasivo.»

Un cigolio dal videoregistratore: la cassetta continuava a girare. La signora Jiménez prese il telecomando sulla scrivania, riavvolse il nastro e premette play. Nessuno degli uomini intervenne. Falcón si spostò per poterla osservare in volto mentre scrutava lo schermo mordicchiandosi una guancia, le labbra strette. Le immagini silenziose cominciarono a scorrere davanti agli occhi della donna, spalancati ora. I lineamenti persero la loro rigidità e il corpo arretrò intimorito quando la signora Jiménez ebbe capito che cosa stava guardando, cominciando a comprendere di essere stata, insieme con i figli, oggetto di studio da parte dell'assassino di suo marito. Arrivata alla fine della prima corsa in taxi fino a quello che ormai tutti sapevano essere il numero 17 di calle Río de la Plata, fermò la cassetta, gettò il telecomando sulla scrivania e uscì rapidamente dalla stanza. Il silenzio rimbalzò dall'uno all'altro dei tre uomini, poi si udì la donna vomitare, gemere e sputare nel suo bagno di marmo bianco illuminato dalle lampade alogene.