Si guardò intorno, osservò gli altri studenti: Pedro. Juan. Sergio. Lola. Sergio? I pensieri cominciarono a farsi bizzarri, troppo grandi per la sua testa. Sergio. Tanto valeva chiamarlo Sergio quel pazzo, un uomo che sapeva parlare, che vedeva le cose con chiarezza, che riusciva a entrarti dentro e a rivoltarti come un guanto. Ha parlato con Eloisa, si disse, le ha dato speranza e poi si è preso la sua vita senza speranza. Perché non parlare con lui? Vuole raccontare la sua storia, perché non raccontargli la mia? Perché non lasciare che sia lui a strapparmi quelle orribili creature dal cervello?
«Javier?» disse l'insegnante.
«Scusate, pensavo ad alta voce.»
Falcón rise interiormente, divertito per il modo in cui il vasto mondo esterno era scomparso davanti alle torreggianti architetture gotiche della sua mente; avrebbe potuto vivere là dentro per anni… ma non appena avuto questo pensiero, si precipitò a uscirne, come un eretico da una cattedrale. Si immerse nel macchinario del linguaggio: era così facile mettere insieme le parole, così rilassante. Si era turbati solo dal significato che sanguinava nello spazio intorno a esse.
Si aggregò a qualche altro studente per andare a bere qualcosa al bar Barbiana, nella calle Albareda. Birra, tapas: atún encebollado, tortillitas de camarones. Gli studenti si sentivano estranei all'ambiente del locale, frequentato da gente muy pija, altolocata, probabilmente con fincas in campagna, commentarono tra loro finché Lola non parve imbarazzata e tutti cambiarono argomento: certamente avevano pensato che, in giacca e cravatta, anche Falcón era muy pijo.
Si separarono prima che Javier fosse pronto per tornare a casa. Ma lo era mai in quel periodo? La casa era una prigione, la sua camera una cella, il letto un letto di tortura dove doveva stendersi ogni notte. Vagò per la città, si avvicinò a gruppi di avventori in bar dalle luci sfavillanti, posando il boccale di birra accanto al loro, finché gli altri non se ne accorgevano e non lo isolavano.
Terminò la serata sotto le alte palme e nel buio profondo tra i grandi alberi della gomma di plaza del Museo de Bellas Artes. Il botellón era in piena attività, nell'aria odore di hashish, tintinnio di vetro e brusio di voci umane soddisfatte.
ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN
30 giugno 1941, Ceuta
Questo pomeriggio Pablito è entrato in camera mia, si è sdraiato sul mio letto, si è arrotolato una sigaretta sul petto e l'ha accesa. Deve dirmi qualcosa. Io lo so, ma come sempre fingo di ignorarlo. Sto disegnando una donna berbera nuda che ho visto stamani al mercato. La noncuranza di Pablito si agita sul letto. Lui fuma come farebbe una mucca, ruminando in continuazione.
«Partiamo per la Russia», mi dice. «Per suonarle ai rossi. Prenderli a calci in culo a casa loro.»
Poso la matita e mi giro verso di lui.
«Il generale Orgaz ci manda volontari. Il colonnello Esperanza dovrà costituire un reggimento, un battaglione sarà formato qui a Ceuta con Legione, Regulares e Flechas.»
Così ricordo l'annuncio quasi noncurante di Pablito. Banale. Sono talmente stufo che non m'importa di andare anch'io. È successo così poco in questi ultimi anni che ho dimenticato l'esistenza di questo diario. Ma il mio diario e nei miei disegni. Non sono abituato a scrivere. Quattro pagine coprono due anni. Non è questo, in fondo, il ritmo della vita? Periodi di cambiamento seguiti da altri, lunghi, nei quali ci si abitua al cambiamento finché ci si sente obbligati a mutare di nuovo. La noia è la mia unica motivazione e probabilmente è anche quella di Pablito, sebbene lui la rivesta di retorica anticomunista. Non sa un accidente di comunismo.
8 luglio 1941, Ceuta
Grande affollamento al porto per vederci partire. Il generale Orgaz ci ha dato la carica. Se non lo avessimo già sospettato, a questo punto sappiamo con certezza che siamo uno strumento della politica (parlo come Oscar ora?). La nostra uniforme la dice lunga su come stanno andando le cose a Madrid. Indossiamo i berretti rossi dei carlisti, la camicia blu della Falange e i pantaloni kaki della Legione. Realisti, fascisti e militari tutti contenti e coinvolti.
I tedeschi sono da mesi alla frontiera dei Pirenei. Correva voce che avrebbero mandato un corpo di spedizione per prendere Gibilterra, il che faceva pensare un po' troppo a un'invasione. Noi veniamo spediti in Russia per tenere buoni i tedeschi, per far sembrare che siamo dalla loro parte. Il giornale dice che Stalin è il nostro vero nemico, ma non parla di un'entrata in guerra. Si sta giocando una partita e noi siamo le pedine. Ho un brutto presentimento sulla sorte della nostra spedizione, ma appena fuori dal porto vediamo un branco di delfini che ci fanno da scorta per quasi tutta la traversata fino ad Algeciras, cosa che mi pare di buon auspicio.
10 luglio 1941, Siviglia
Siamo stati sistemati nella caserma Pineda nella zona meridionale della città. Abbiamo passato la sera in città senza doverci pagare da bere nemmeno una volta. Quando siamo stati qui in precedenza, noi, o almeno alcuni di noi, facevamo a pezzi la gente nelle vie di Triana: ora siamo eroi, mandati a tenere a bada il comunismo. Nei rapporti umani cinque anni sono un'era geologica. A dispetto del caldo brutale mi piace Siviglia. I bar semibui, freschi, la gente dalla memoria corta e con la necessità di esprimere gioia. Credo che si possa vivere a Siviglia.
18 luglio 1941, Grafenwöhr, Germania
Abbiamo cambiato treno a Hendaye, nella Francia meridionale. I francesi ci mostravano i pugni e scagliavano pietre contro i vagoni mentre passavamo. Nella nostra prima fermata in Germania, a Karlsruhe, la stazione era piena di gente che acclamava e cantava «Deutschland, Deutschland über alles». Hanno coperto il treno di fiori. Ora siamo da qualche parte a nord-est di Nürnberg. Tempo grigio. Le nuove reclute e la maggior parte dei guripas già depressi, con la nostalgia di casa. Noi veterani depressi perché ci hanno appena detto che la División Azul, come siamo chiamati, non sarà motorizzata ma ippotrainata.
8 agosto 1941, Grafenwöhr
Pablito ha un occhio nero e un labbro tagliato. I tedeschi non gli piacciono più dei comunisti che non ha ancora incontrato. Gli uomini, i guripas, sono contenti di indossare le camicie azzurre e i berretti rossi invece dell'uniforme regolamentare tedesca. In città è scoppiata una rissa nella Rathskeller. «Dicono che non sappiamo avere cura delle nostre armi», sostiene Pablito, «ma la verità è che ci stiamo scopando tutte le loro donne e le ragazze non sono mai state tanto soddisfatte.» Non so se Pablito riuscirà mai a trovarsi bene con i nostri nuovi alleati. Il cibo puzza più delle latrine, il loro tabacco è peggio del fieno e il vino non esiste. Mentre il colonnello Esperanza si è visto recapitare una Studebaker President, noi abbiamo ricevuto seimila cavalli dalla Serbia. Occorrerebbero otto settimane solo per addestrarli, ma partiremo per il fronte entro la fine del mese. Pablito ha sentito dire che marceremo su Mosca, ma io vedo come ci guardano i tedeschi, che attribuiscono un grande valore alla disciplina, all'ubbidienza, al comando e alla pulizia. La nostra arma segreta è la passione, ma è un'arma troppo segreta perché possano vederla. Solo in battaglia si accorgeranno della fiamma che brucia dentro ogni guripa. Un grido di «A mí la Legión!» e tutti insorgeremo e respingeremo i russi fino in Siberia.