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8 novembre 1941

C'è ghiaccio sul Volkhov. Difficile credere che diventerà spesso un metro e che cambierà completamente la strategia della nostra piccola guerra. I soldati riescono già ad attraversare il fiume servendosi di tavole. Hanno cercato di farlo attraversare anche ai cavalli, ma uno è scivolato dalle assi ed è caduto nell'acqua gelida. Nella sua frenesia ha strappato le redini dalle mani del soldato che lo conduceva e che è rimasto a guardare impotente mentre l'animale terrorizzato cercava disperatamente di risalire sulla tavola. Incredibile, ma è bastato pochissimo tempo perché una bestia così grossa soccombesse al gelo. Dopo un minuto le zampe posteriori si erano paralizzate, entro due minuti anche quelle anteriori erano immobili. Nel pomeriggio intorno al corpo il ghiaccio si era già solidificato, trasformando l'animale in una statua, il terrore ancora vivo negli occhi. È diventato un monumento all'orrore. Nessuno scultore a cui un consiglio comunale impazzito avesse affidato il compito di realizzare una statua del genere avrebbe potuto fare meglio. I guripas mai stati al fronte non riescono a togliergli gli occhi di dosso. Qualcuno si volta indietro a guardare la sponda occidentale del fiume e si rende conto che la civiltà è alle sue spalle ormai e che al di là del Cavallo di ghiaccio non lo aspetta la gloria, una causa per cui appassionarsi, ma la visione, che gela il sangue, del centro più freddo del cuore umano.

9 novembre 1941

A Nikltkino mi sono imbattuto in una scena da medioevo. Un prigioniero russo armato di martello girava tra i suoi compagni morti e spezzava loro le dita ancora strette intorno al fucile. Nessuno aveva gli stivali ai piedi, erano stati tutti rubati. Con le dita spezzate, le braccia rotte e tolte le armi è possibile spogliarli delle pellicce e delle giubbe imbottite. Ormai io ho l'aspetto di un uomo lupo e di recente mi sono procurato un berretto di pelliccia d'orso. Il fronte si è esteso fino a Otonskii e a Posad.

18 novembre 1941, Dubrovka

I russi hanno contrattaccato alle estremità del nostro fronte. Posad ha martellato con tutto, mortai, anticarro e artiglieria. L'abbiamo presa il giorno seguente dopo una carica dei rossi che hanno cominciato con un fragoroso «Urrà!» e gridando anche qualcos'altro: man mano che si facevano più vicini, ci è sembrato di udire: «Ispanskii kaput!» ha nostra artiglieria li ha falciati come frumento, perché così avanzavano, dritti, mai curvi. Forse l'avrebbero trovato poco virile. Si sono raggruppati e ci hanno attaccato di nuovo durante la notte e noi li abbiamo affrontati sulla piana coperta di neve illuminata dai razzi che ricadevano lentamente, i boschi neri dietro di loro. Irreale. La notte così silenziosa prima del massacro. Abbiamo lanciato granate e poi siamo andati all'attacco la baionetta in canna. I rossi si sono dispersi. Mentre tornavano a immergersi nella foresta si udivano le nostre reclute alla loro prima carica gridare dietro ai rossi. «Otro toro! Otro toro!»

5 dicembre 1941

Di nuovo al fronte dopo una ferita superficiale che mi aveva fatto ricoverare all'ospedale da campo. Non voglio rivederlo mai più. Nemmeno il freddo è riuscito a soffocare il fetore di quel posto, anzi, penso che mi sia rimasto congelato nelle narici in modo permanente.

Il gelo ha raggiunto una nuova dimensione: –35°. Quando un uomo muore per il caldo impazzisce, comincia a farneticare, gli bolle il cervello. Il freddo lo fa semplicemente svanire. Un attimo prima è accanto a te, magari si sta accendendo una sigaretta e un attimo dopo è svanito. Gli uomini muoiono perché il fluido cerebrale si congela nella testa sotto l'elmetto di acciaio. Sono contento del mio berretto di pelo. Con l'abbassamento della temperatura i russi hanno cominciato a parlarci in spagnolo, usando i repubblicani per tradurre. Promettono caldo, cibo, divertimenti. Diciamo loro di fottersi quelle gran puttane delle loro madri.

28 dicembre 1941

Vigilia di Natale nel gelo profondo. Gli uomini recitano poesie e cantano: poesie e canzoni sulla Spagna, sul sole, sui pini, sulla cucina della mamma e sulle donne. I russi sono spietati e attaccano il giorno di Natale. La massa di uomini che ci lanciano contro è impressionante. Abbiamo sentito parlare dei loro battaglioni di punizione: i politicamente indesiderabili sono inviati contro i nostri cannoni, cadono ammassati l'uno sull'altro a tre o quattro alla volta e i veri soldati seguono correndo e usano i loro corpi come una rampa. Siamo nel posto più dimenticato da Dio di tutta la terra, senza quasi la luce del giorno e con la morte tutto intorno a noi. Riferiscono di atrocità a Udarnik nel nord del nostro settore: guripas trovati inchiodati a terra con le piccozze da ghiaccio. La nostra rabbia si indebolisce per via del freddo e della fame.

18 gennaio 1942, Novgorod

I russi sentono l'odore della nostra debolezza e, proprio quando pensiamo che il freddo sia tale che non potremo muoverci mai più, attaccano. Veniamo spediti a Teremets per dare man forte ai tedeschi. Cerchiamo di dissuadere le ondate incessanti dei russi usando qualcuno dei nostri vecchi trucchi africani. Togliamo ai prigionieri tutti gli indumenti utili, tagliamo loro il dito che preme il grilletto, spacchiamo i nasi, strappiamo un orecchio e li rimandiamo indietro. Nessun effetto. Il giorno dopo ci assaltano di nuovo con randelli e baionette. Sono stato fortunato a uscire vivo da Teremets e ho potuto farlo solo perché sono stato mandato in retroguardia con una gamba rotta.

17 giugno 1942, Riga

Complicazione alla gamba dopo una polmonite. Ero troppo debole per potermi muovere e non ho potuto unirmi al battaglione di ritorno in primavera. Mi hanno ingessato di nuovo la gamba. Ho contratto il tifo. La ferita non voleva rimarginarsi. Per cinque mesi quasi non sono riuscito a sapere che cosa mi stesse succedendo. Ho avuto la visita del nuovo comandante della 269a, il tenente colonnello Cabrera, che mi ha chiesto di tornare al fronte con la «Tía Bernarda» (così è soprannominata la mia unità), che ha ricevuto rinforzi. La guerra sta andando meglio per i tedeschi, che hanno di nuovo il controllo di tutto il territorio a ovest del Volkhov e stanno cominciando a stringere Leningrado in una morsa.

9 febbraio 1943

Oggi è passato nelle nostre file un disertore ucraino e ci ha detto più di quanto avremmo voluto sapere su quanto sta accadendo a Kolpino. Una quantità enorme di batterie è stata trasportata alle spalle della città, centinaia di autocarri hanno scaricato gli obici. Il nemico è pronto ad attaccare domani. Dopo un'attesa così lunga non gli crediamo, ma lui ci mostra le mutande pulite e questo ci basta. I russi distribuiscono sempre mutande pulite prima di un attacco. Significa che si va a morire, ma che lo si farà con dignità. Perciò quell'uomo ha disertato. Ma perché, con tutta quella potenza di fuoco dietro di lui, è venuto da noi che stiamo per riceverla? La vodka fa qualcosa al cervello slavo.

I lunghi cannoni di Kolpino hanno cominciato a martellare le nostre posizioni a sud. La fanteria ha fatto saltare i campi minati davanti alle loro linee. La nostra patetica artiglieria ha fatto fuoco e i russi hanno capito perfettamente la psicologia della cosa… non si sono nemmeno degnati di rispondere.

La notte è scesa alle cinque del pomeriggio, il freddo ci è penetrato fin nelle ossa. Siamo spaventati, ma l'inevitabilità tira fuori tutta la nostra grinta. I carri russi hanno acceso i motori all'unisono, un ruggito assordante. I motori rombano tutta la notte, i russi temono che il gelo li possa bloccare.