«Domani comincia la corsa dei tori», dice un sergente. Vado a controllare le sentinelle, il freddo le rende meno pronte. Mentre scambio qualche parola con gli uomini, gli abeti davanti alla torbiera si agitano al passaggio di migliaia di soldati che si affrettano a raggiungere le loro posizioni nella foresta in vista dell'attacco di domani.
10 febbraio 1943
Niente di quanto ci ha detto l'ucraino ci aveva preparato a questo. Alle 6.45 i cannoni di Kolpino hanno aperto il fuoco su di noi, mille pezzi di artiglieria tutti insieme. Entro pochi minuti la devastazione è stata pari a quella di un terremoto. Interi fianchi delle colline sono esplosi, franati come sotto la pressione di un vulcano, gli abeti ricoperti di brina ghiacciata hanno preso fuoco, la neve intorno a noi si è sciolta in un istante. Posizioni massicciamente fortificate sono scomparse nella terra fumante. Siamo stati tagliati fuori. Impossibile comunicare per telefono e niente visibilità a causa del fumo nero nell'aria puzzolente di torba. Ci siamo rannicchiati sotto un torrente di terra, di tavole, di filo spinato, di pezzi di ghiaccio e poi di arti umani, braccia, gambe, teste con gli elmetti, un torso semiarrostito. È stata la dichiarazione di apertura delle ostilità. Il messaggio: «Non sopravvivrete».
Alcuni dei nostri singhiozzavano, ma non di paura, erano semplicemente incapaci di contenere lo shock. Abbiamo atteso l'inevitabile «Urrà!» e poi i rossi hanno caricato. Si sono gettati nei nostri campi minati e dopo dieci metri erano stati tutti abbattuti. Un'altra ondata. Altri dieci metri e tutti abbattuti. Quando hanno raggiunto il limite del campo minato abbiamo aperto il fuoco e li abbiamo falciati, una linea dopo l'altra. I cadaveri si ammucchiavano, fino a cinque cadaveri l'uno sull'altro, e gli assalti non si fermavano. Noi sparavamo all'impazzata, le canne delle mitragliatrici di un rosso cupo anche nel freddo intenso del mattino.
I rossi hanno lanciato i nuovi carri KV-1 contro il loro obiettivo: le alture di Sinevino. I nostri proiettili da 37 mm rimbalzavano sulle corazze metalliche.
Siamo rimasti tagliati fuori dalla nostra ala sinistra e dalla retroguardia. Hanno continuato a martellarci. Il capitano è stato colpito al braccio. I carri T-34 più piccoli hanno sfondato la nostra linea seguiti dalla fanteria che noi abbiamo falciato, il sangue arrossava le loro mantelle bianche. Ci hanno colpito con proiettili anticarro e con i mortai, al punto che non riuscivamo nemmeno a pensare. Alla fine non avevamo più mitragliatrici, né fucili a ripetizione. Ogni russo che si avvicinava troppo veniva trascinato nella trincea e pugnalato. Altro fuoco di mortaio. Mi è venuta voglia di ridere, la nostra posizione era talmente disperata… Il capitano è stato ferito a una gamba. Saltellava tra noi, incitandoci a resistere: «Arriba España! Viva la muerte!» Eravamo istupiditi dalla battaglia, le facce completamente nere, a parte l'area intorno agli occhi che era bianca. Dormivamo in piedi. Il capitano ha cominciato un'ultima esortazione: «La Spagna è orgogliosa di voi. Io sono orgoglioso di voi, considero un assoluto privilegio avervi comandato nella battaglia di oggi…» È stato interrotto da venti fucili russi puntati su di noi nella trincea.
12 febbraio 1943, Sablino
La prima domanda da parte dei rossi è stata: «Chi ha un orologio?» I nostri due ufficiali sopravvissuti se lo sono visti portare via. Quattro nostri feriti sono stati finiti a colpi di baionetta là dove si trovavano. Ci hanno fatto marciare sulla strada Mosca-Leningrado. La devastazione era così immensa, i loro caduti in numero tale che si riusciva a comprendere come ogni rosso che incontravamo fosse completamente ubriaco. Qualcuna delle guardie si è eclissata lungo la strada per andare a sbronzarsi. Quando siamo arrivati al fiume, il nostro capitano è stato portato via per essere interrogato. Sono rimasti perciò in quattro a scortarci al campo recintato di Ian Izhora. Non ci attirava affatto l'idea di una nottata all'aperto. Abbiamo parlato tra noi in spagnolo e al segnale li abbiamo colpiti. Un pugno sferrato alla gola del soldato russo più vicino e via, lontano dalla strada e verso la torbiera, correndo a zig-zag. La loro mira non era un gran che e siamo riusciti ad arrivare fino a una vecchia trincea anticarro, dopodiché ci siamo messi a correre lungo questa trincea verso la zona dove erano state le nostre linee. Abbiamo visto soltanto russi ubriachi e addormentati. Siamo riusciti a tornare sulla strada e a quel punto abbiamo udito le parole: «¡Alto! ¿Quién vive?» Abbiamo risposto: «España» e siamo caduti tra le braccia che ci attendevano.
13 febbraio 1943
Ciò che ho visto qualche giorno fa mi ha sminuito. Sono meno umano dopo quanto ho visto e fatto. La gloria in battaglia è cosa del passato. Gli eroismi individuali scompaiono nel miasma della guerra moderna dove le macchine tonanti annichiliscono e disintegrano l'obiettivo. Uno si sente coraggioso e dovrebbe essere fiero di essere entrato nell'arena. Io l'ho fatto e non mi sono mai sentito più solo. Perfino quando sono scappato di casa non mi sono sentito così. Non conosco nessuno e nessuno conosce me. Ho freddo, ma è un freddo che viene da dentro. Con la mia pelliccia di lupo e il mio berretto di pelle d'orso sono un animale solitario, senza branco, sulla pianura innevata dove l'orizzonte si confonde con il paesaggio e non c'è né principio né fine. Sono esausto di una stanchezza che mi frantuma le ossa e l'unica cosa che desidero è dormire per fare sogni bianchi come la neve e in un gelo che so mi porterebbe via senza sofferenza.
9 settembre 1943
Non ho scritto una parola da Krasni Bor e mentre rileggo capisco perché. Faccio parte del 14° Battaglione di ritorno e questo mi dà la forza di affrontare di nuovo una pagina bianca. Oggi i russi ci hanno informato della capitolazione dell'Italia. Hanno alzato un grosso cartello dove era scritto in enormi lettere rosse: ESPAÑOLES, ITALIA SE HA CAPITULADA! PASARES A NOSOTROS. Alcuni guripas sono passati sotto il filo spinato e hanno strappato il cartello sostituendolo con un altro: NO SOMOS ITALIANOS. Una volta tanto i tedeschi sono stati d'accordo.
I miei pensieri sono rivolti a casa. Ma non ho casa. Tutto ciò che voglio è tornare in Spagna, starmene seduto al sole dell'Andalusia con un bicchiere di tinto in mano. Decido che andrò a Siviglia e che Siviglia sarà la mia casa.
14 settembre 1943
Ci siamo allontanati dal fronte a Volosovo, una marcia di 60 chilometri. Mi aspettavo di sentirmi felice, la maggior parte dei guripas cantavano. Sono ancora sopraffatto dalla stanchezza. Avevo creduto che allontanandomi dal fronte sarei stato meglio, ma il mio animo è cupo e quasi non apro bocca. Di notte sudo, il cuscino è impregnato di sudore anche se non fa caldo. Non dormo mai profondamente, il mio sonno è una serie di soprassalti, di spasmi che cominciano a metà del corpo e schioccano come una frusta nel cervello. La mano sinistra trema e tende a essere spastica. Mi sveglio con la sensazione che le mani non mi appartengano e immediatamente sono in preda al terrore.
Riguardo i miei disegni e a commuovermi non è il profilo di Leningrado con la cupola della cattedrale di Sant'Isacco e la guglia dell'Ammiragliato, e nemmeno i ritratti dei miei compagni e dei prigionieri russi. Sono i paesaggi invernali. Fogli bianchi con vaghe tracce di edifici, di izbe o di abeti. Sono astrazioni di una condizione mentale. Una desolazione selvaggia e gelida nella quale persino le certezze sono solo una presenza tremula. Ne mostro uno a un altro veterano del fronte russo. Lo guarda per un po' e io penso che vi abbia visto ciò che ho visto io, ma poi me lo restituisce con le parole: «Buffo quel lupo». Rimango perplesso, ma alla fine ne sono divertito e avverto il primo barlume di speranza da febbraio a questa parte.