Non riusciva a comprendere la sua emotività nei confronti di quella gente. Era venuto a contatto con altre famiglie devastate da omicidi o abusi sessuali, dalla droga o da episodi di violenza estrema. Perché la famiglia Jiménez aveva su di lui quell'effetto? Doveva assolutamente parlarne con qualcuno prima che la disperazione cominciasse a scaturire da lui liberamente, senza più freni. Alicia Aguado… avrebbe funzionato?
Nella stanza si riaccesero le luci. Ramírez e Pérez si girarono verso il loro superiore.
«C'è una quantità di questa roba», disse Ramírez. «Che cosa stiamo facendo esattamente, Inspector Jefe?»
«Stiamo aggiungendo qualcosa al profilo del nostro assassino», rispose Falcón. «Abbiamo di lui una certa idea per quanto riguarda il fisico grazie agli ingrandimenti delle riprese del cimitero. Ci è stato detto che è guapo e che ha belle mani. Fisicamente, perciò, sta prendendo forma. Psicologicamente: abbiamo detto che è creativo e che ama scherzare, sappiamo che si interessa di cinema e sappiamo che ha studiato a fondo la famiglia Jiménez…»
Scoprì a quel punto di non sapere come continuare. Perché mai stavano guardando quei filmini?
«La cassa dov'erano custoditi era sigillata», disse Pérez; e lo aveva già affermato nel rapporto. «Non hanno più visto la luce del giorno da quando sono stati chiusi là dentro.»
«Ma quale giorno!» riprese Falcón, parlando come un uomo che, sul punto di affogare, si aggrappasse a una canna galleggiante. «Il giorno in cui ha scacciato il ricordo di suo figlio dalla memoria.»
«Ma che cosa aggiunge questo al profilo dell'assassino?» domandò Ramírez.
«Stavo pensando alle terribili lesioni che si è inferto Jiménez», riprese Falcón. «Si era rifiutato di vedere qualcosa alla televisione ed è stato allora che gli hanno strappato le palpebre. Perché vedesse che cosa? Che cosa può aver indotto Raúl Jiménez a infliggersi un simile tormento?»
«Se qualcuno avesse tagliato le palpebre a me…» cominciò Pérez.
«Avete visto il bambino, quel piccolino inerme», continuò Falcón, «lo avete udito strillare e gridare contento tra le braccia di sua madre… Non credete che…?»
Si interruppe. I due uomini lo stavano fissando, le facce attonite, senza capire.
«Ma, Inspector Jefe», disse Pérez, «non c'era il sonoro.»
«Lo so, Subinspector…» Ma Falcón non lo sapeva e la sua mente si svuotò di colpo, assalita dal panico, tanto che non riuscì nemmeno a ricordare il nome del suo collega. Non riuscì a pensare a un'altra parola che potesse seguire quelle che aveva appena pronunciato; era diventato ciò che temeva di più, l'attore ormai capace soltanto di recitare la parte di se stesso nella sua propria vita.
Tornò alla realtà, come se la bolla nella quale si era rinchiuso fosse scoppiata e la vita vera fosse rifluita fino a lui. Gli altri due si erano alzati e stavano smontando lo schermo. Con sorpresa Falcón si accorse che erano quasi le nove di sera. Doveva uscire di lì, ma occorreva salvare qualcosa dal naufragio di quella situazione. Si avviò alla porta.
«Prepari un rapporto sui film, Subinspector…» il nome continuava a sfuggirgli. «E nel farlo voglio che usi l'immaginazione, voglio che pensi all'uomo che aveva in mano la cinepresa e al suo stato mentale a quel tempo.»
«Va bene, Inspector Jefe», disse Pérez, «ma lei mi ha sempre detto di riferire i fatti senza cercare di interpretarli.»
«Faccia del suo meglio», ribatté Falcón. Uscì.
Cercò di inghiottire una pillola di Orfidal, ma gli rimase appiccicata al palato tanto che dovette andare in bagno per spruzzarsi acqua in bocca e sulla faccia accaldata. Mentre si asciugava gli parve di non riconoscere i suoi occhi nello specchio: erano gli occhi di un altro, due cose cerchiate di rosso, velate, affondate nelle orbite, che cercavano di nascondersi nel suo cranio. Stava perdendo autorevolezza, nessuno avrebbe mai potuto rispettare occhi così.
Uscì dalla Jefatura nell'aria fresca della sera, guidò fino a casa e si avviò a piedi verso calle Vidrio e l'abitazione della dottoressa Alicia Aguado, dove arrivò poco prima delle dieci, l'ora del suo appuntamento. Passeggiò avanti e indietro davanti all'edificio restaurato da poco, nervoso come un attore prima di un'audizione, finché non ne poté più e si decise a suonare il campanello. La dottoressa aprì e Falcón salì una rampa buia fino alla luce che usciva dalla porta.
Falcón notò che sulle pareti celeste chiaro dello studio non era appeso nulla e che nella stanza c'erano solo un divano e un sedile a due posti a forma di S.
Una stanza stretta, tutta la casa piccola e contenuta, tanto da fargli sembrare assurda la sua; gli comunicò l'impressione di una testa piacevolmente ben organizzata, laddove la sua era diventata una follia bizantina, dispersiva, dalle mille stanze, a più piani, cavernosa, piena di balconi, barocca: era come un manicomio dove un unico internato si tenesse nascosto finché non fosse sceso il silenzio…
Alicia Aguado aveva capelli neri corti, il viso pallido senza alcuna traccia di trucco. Gli tese la mano, ma senza guardarlo in faccia. Le loro dita si toccarono e la donna gli disse: «Il dottor Valera non l'ha informata del fatto che sono ipovedente».
«Mi ha solo garantito che non si interessava di pittura.»
«Vorrei poterlo fare, ma sono in queste condizioni da quando avevo dodici anni.»
«Quali condizioni?»
«Retinite pigmentosa.»
«Non ne ho mai sentito parlare», ammise Falcón.
«Si tratta di cellule pigmentate anomale che senza una ragione definita si depositano a chiazze sulla retina», spiegò la donna. «I sintomi hanno inizio con la cecità notturna per concludersi, a grande intervallo di tempo, con la cecità completa.»
Javier, paralizzato, continuò a stringerle la mano finché lei non la liberò lentamente, indicandogli il sedile a forma di S.
«Bisogna che le spieghi alcune cose sul mio metodo», disse poi, sedendo accanto a lui ma allo stesso tempo di fronte, sul sedile appositamente realizzato. «Non posso vedere con chiarezza la sua faccia e le persone comunicano molto con il viso. Come forse sa, siamo 'programmati' per questo fin dalla nascita. Ciò significa che devo usare altri metodi per registrare le sue emozioni. È un metodo simile a quello dei medici cinesi che si affidano alle pulsazioni cardiache. Così noi stiamo seduti su questo strano divanetto, lei appoggia il braccio qui al centro, io le tengo il polso e lei parla. La sua voce sarà incisa per mezzo di un registratore posto nel bracciolo. È d'accordo su tutto questo?»
Falcón annuì, cullato dalla calma autorevolezza della donna, dal suo volto placido, dagli occhi verdi che non vedevano.
«Parte del mio metodo è che raramente induco a conversare, lei parla e io ascolto, questa è l'idea. Al massimo posso cercare di indirizzare i suoi pensieri o di farla ripartire nel caso arrivasse a un punto morto. Però sarò io a darle il via.»
Girò un interruttore sul lato del sedile, facendo entrare in azione il registratore, quindi posò la mano sul polso di Falcón e lo strinse, una stretta esperta ma gentile.
«Il dottor Valera mi ha riferito che lei mostra i sintomi dello stress e io sento che ora lei è ansioso. Valera ha detto che il cambiamento nel suo equilibrio emozionale è cominciato all'inizio di un'indagine su un delitto particolarmente brutale. Mi ha parlato anche di suo padre e della riluttanza che lei ha nei confronti dei terapeuti che possono conoscere le opere di Francisco Falcón. Riesce a pensare al motivo per cui quel primo incidente… che cosa c'è?»