Si ritirò in casa, la fame sparita, in preda allo sfinimento della sconfitta, in rotta come un intero esercito. La doccia non servì che a farlo sentire più pulito. Prese una pillola per dormire e si infilò sotto le coperte, rimanendo a fissare il soffitto che pareva arretrare all'infinito, ipnotizzato come se fosse stato al centro di una strada fra i bagliori accecanti dei fari. Si disse che doveva resistere, che era pericoloso addormentarsi al volante, non più in grado di capire dove fosse, tanto grande era la confusione nella sua testa. Protese una mano, aspettandosi che tutto quanto sfuggisse al controllo, che all'improvviso il suo campo visivo includesse uno sbarramento, una sponda, un albero fatale contro cui schiantarsi. Volò nel sonno come attraverso un parabrezza, dentro la notte.
ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN
12 ottobre 1943, Triana, Siviglia
Un camion dell'esercito mi ha dato un passaggio da Toledo fino a Siviglia. Una vera fortuna. Il paese è in ginocchio, manca la benzina e il cibo scarseggia. Non c'è grande traffico sulle strade, a parte qualche carretto tirato da cavalli o da muli affamati.
Ho preso una stanza da un'affittacamere grassa dalle fattezze moresche e dai capelli neri lunghi fino alle reni, che di solito porta raccolti in una crocchia. Ha gli occhi neri opachi come carbone e suda in continuazione, come se fosse perennemente sull'orlo di un collasso. I seni hanno deciso di separarsi e vivono in isolamento ai due lati della gabbia toracica, la pancia è grossa come quella di un bevitore e le balla sotto la gonna a ogni passo. Ha le caviglie rosse e gonfie e ansima dolorosamente mentre si muove da una stanza all'altra. Mi piacerebbe disegnarla e dipingerla, preferibilmente nuda, ma la donna ha un compagno, magro come un cane randagio, e quest'uomo possiede un coltello che gli sento affilare amorosamente tutte le mattine prima di uscire. Nella camera ci sono un mobile con i cassetti che non si aprono, un letto e un quadro della Madonna appeso alla parete sopra il letto. Prendo la stanza perché ha un patio esterno che la padrona di casa usa soltanto per stendere i panni. Lascio giù i miei bagagli e vado a comprarmi materiale per dipingere e qualcosa da bere.
25 ottobre 1943, Triana, Siviglia
Probabilmente è perché sono un soldato, ma ho iniziato una vita regolata, anche se ho smesso di alzarmi presto la mattina. In questa città non succede niente prima delle dieci. A quell'ora vado a piedi alla Bodega Salinas sulla calle San Jacinto a bermi un caffè e a fumare una sigaretta. Frequento questo bar, perché il proprietario, Manolo, ha botti di buon tinto con il quale riempio i miei bottiglioni da cinque litri. Mi vende anche acquavite fatta in casa che compro a un litro alla volta. Poi torno nella mia stanza e lavoro fino alle tre del pomeriggio, unica interruzione l'acquaiolo. Alle tre mangio qualcosa al bar, con un bicchiere di vino, riempio la bottiglia e torno in camera mia dove dormo fino alle sei. Di nuovo lavoro fino alle dieci di sera, ceno e mi fermo da Manolo per bere con i farabutti e i poveri idioti che si ritrovano da quelle parti.
29 ottobre 1943, Triana, Siviglia
Ieri nella Bodega Salinas uno degli avventori, conosciuto solo con il soprannome di Tarzán, è venuto a sedersi al mio tavolo. Ha un ventre enorme e una faccia che sembra un mucchio di patate (Johnny Weissmuller rimarrebbe malissimo). Gli occhi sono gonfi e semichiusi. Si siede e tutti stanno zitti e ascoltano.
«Allora», comincia, appoggiando un avambraccio cicciuto sul tavolo, «da dove ti viene quell'aria che hai?»
«Quale aria?» domando io, senza capire.
Non c'è niente di aggressivo in Tarzán, nonostante la sua faccia bitorzoluta. Porta un cappello nero che non si toglie mai, ma che ogni tanto si fa scivolare sulla nuca, per stropicciarsi la fronte.
«L'aria di uno che non è di qui», risponde lui calmo, ma io mi sento perforare da quegli occhi dalle palpebre pesanti, come se stesse prendendo la mira lungo una canna di fucile.
«Non sono sicuro di aver capito.»
«Non sei di Siviglia, Non sei andaluz.»
«Vengo dal Marocco, Tetuán e Ceuta», dico, ma pare che non gli basti.
«Tu ci guardi e prendi appunti. Hai occhi da vecchio su una faccia da giovane.»
«Sono un pittore», spiego, «prendo appunti per ricordarmi delle cose che ho visto.»
«E che cosa hai visto?»
Mi rendo conto che quella gente non mi crede, pensano che sia della Guardia Civil (gli uomini della Guardia Civil sono sempre di fuori) o peggio.
«Ho fatto il soldato», dico, evitando la parola Legión. «Sono stato in Russia con la División Azul.»
«Dove?» domanda un tipo dalle gambe storte, un picador di una certa reputazione.
«Dubrovka, Teremets e Krasni Bor», rispondo.
«Io ero a Shevelevo», dice lui e ci stringiamo la mano.
Generale respiro di sollievo. Perché poi abbiano pensato che uno della polizia segreta potesse starsene seduto tranquillamente in un bar a prendere appunti su di loro (il gruppo di bestioni più tonti di tutta la Spagna meridionale) non riesco a immaginarlo.
15 dicembre 1943, Triana, Siviglia
Nel bar entra un giovane sui vent'anni. Si chiama Raúl, tutti lo conoscono e piace a tutti. Ha lavorato a Madrid, ma stasera non ha fatto che parlare di Tangeri, dove sì che si fanno i soldi. Gli altri ridono e gli dicono che dovrebbe parlare con El Marroquí, che è il mio soprannome. R. siede al mio tavolo e mi parla delle fortune che si fanno a Tangeri con il contrabbando. Io gli dico che di soldi ne ho abbastanza e che voglio fare il pittore. Lui insiste che con le sigarette americane si può guadagnare moltissimo, ma che si guadagna con tutto per via del blocco americano dei porti spagnoli. La sua sola preoccupazione è che l'atteggiamento degli americani verso Franco possa cambiare e che levino il blocco, ora che la División Azul è stata ritirata dalla Russia. A questo punto comincio a interessarmi, perché mi rendo conto che quel ragazzo non è un idiota che pensa solo alle pesetas, ma uno che capisce come stanno le cose. Gli offro da bere; la sua compagnia è più stimolante di quella dei normali clienti della Bodega Salinas. Vengo a sapere che Tangeri è un porto franco, vale a dire che le merci possono entrare liberamente ed essere comprate e vendute senza pagare tasse. Tutto è a buon mercato, non si deve fare altro che comprare, trasportare le merci al di là dello stretto e venderle con un guadagno enorme. Magnifico, a parte il fatto che non ha i soldi per comprare le merci e non ha una nave per trasportarle. Ma questo, secondo lui, è un particolare di nessun conto. «Si comincia a lavorare per terzi», spiega, «si impara il mestiere e poi ci si mette in proprio.»
«Dove ci sono i quattrini», dice poi, fissandomi con i suoi occhi giovani, senza esperienza, «c'è anche il pericolo.»
Mi domando perché dica questo a me e lui afferma che se c'è pericolo c'è sempre un grande guadagno.
A Madrid R. ha lavorato nell'edilizia, ma il costruttore è rimasto senza liquidi. Allora R. ha trovato impiego come lustrascarpe. Solo i ricchi si fanno lustrare le scarpe, dice. Scopre che i ricchi sono tali perché sanno più cose degli altri. Li ha ascoltati e si è reso conto che parlano sempre di Tangeri, dove l'amministrazione è spagnola e corrotta e rimarrà così per parecchio tempo a venire. R. ha già programmato tutto. Devo ricordargli che non ho bisogno di soldi, ma lui non è affatto d'accordo e mi dice che perfino gli artisti più affermati guadagnano poco. Alla fine della serata siamo tutti e due sbronzi e lui mi chiede se può dormire da me sul pavimento. È un tipo allegro e piacevole, perciò acconsento, a condizione che se ne vada prima che io cominci a lavorare.