21 dicembre 1943
Sono stato derubato. R. e io, rientrando dalla Bodega Salinas, abbiamo scoperto che qualcuno è entrato in casa passando dal patio e ha rubato tutto tranne i miei taccuini, i disegni e i dipinti. Abiti, colori e perfino la Vergine sopra il letto: volatilizzati. Quest'ultima è stata la perdita più grave, perché tutti i miei soldi erano nascosti dietro il quadro. Mi è rimasto solo quello che ho in tasca. Informo la padrona di casa di quanto è successo, sono furioso e faccio insinuazioni sull'unica altra persona che usa il patio. Lei mi si scaglia contro e il nostro rapporto è rovinato senza rimedio. Più tardi scopriamo i vasi da fiori rotti nel patio e R. trova il punto in cui il ladro deve aver scavalcato il muro e usato i vasi, fissati alla parete, per calarsi e risalire.
22 dicembre 1943
La grassona moresca è implacabile e oggi ci è comparsa davanti insieme con quel botolo ringhioso del marito e con qualche altro bandito locale, per persuaderci a sloggiare. Dato il mio addestramento sono tentato di farli a pezzi, ma dovrei poi affrontare la Guardia Civil e la galera. R. e io ce ne andiamo. R. ha usato tutto il suo potere di convincimento e ora ci stiamo dirigendo a sud a piedi con l'intenzione di arrivare ad Algeciras.
27 dicembre 1943
Credevo che i russi fossero in gran parte gente povera, primitiva, ma i paesi che abbiamo attraversato ci hanno rivelato una Spagna rinchiusa in un medioevo oscuro, senza speranza, con la follia come costante compagna. Non è raro incontrare qualcuno che ulula alla luna. Mentre cercava qualcosa da mangiare R. si è imbattuto in un ragazzo incatenato a un muro con un collare di ferro. Gli occhi erano tutti pupille e R. non è riuscito a scorgervi la minima traccia di umanità.
5 gennaio 1944, Algeciras
Siamo arrivati mezzi morti di fame e vestiti di stracci dopo essere stati assaliti da un branco di cani randagi più affamati di noi. Ne ho uccisi tre a mani nude prima che il branco fuggisse, lasciandoci laceri e sanguinanti. R., che mi ha sempre mostrato rispetto, adesso sembra che abbia di me un timore reverenziale. In questo ragazzo avverto un'astuzia che mi crea un certo disagio.
7 gennaio 1944, Algeciras
La Spagna in queste condizioni non è un paese vivibile per nessuno. L'Africa è così vicina, riesco a vederla, subito al di là dello stretto. Ne sento l'odore e sono sorpreso di constatare quanto desidero tornarvi.
R. è rientrato dicendo di aver trovato un contrabandista che ci offre lavoro per due mesi sulla sua barca, con vitto e alloggio e la garanzia di lasciarci a Tangeri con dieci dollari in tasca. Se tutto dovesse funzionare, potremmo rivedere l'accordo dopo i due mesi di prova. Gli chiedo che cosa dovremo fare, ma questo è un particolare di cui non si cura. Gli piace l'idea di questo lavoro. Lira fuori due sigarette e con ciò mi mette a tacere. Mi domando come mai io mi sia messo nelle sue mani così completamente, poi ricordo tutti quegli altri ex legionari che sono tornati a Dar Riffen, incapaci di sopportare il mondo esterno.
R. mi racconta qualcosa di sé, forse per legarmi a lui. Varia in tono distaccato. Mi dice che nel 1936 nel suo paese arrivò un camion di anarchici che ordinarono al sindaco di consegnare tutti i fascisti. Il sindaco disse che erano scappati tutti. Due giorni dopo gli anarchici ritornarono con un elenco di nomi, tra questi anche quelli dei suoi genitori. Gli anarchici li portarono in un burrone e li fucilarono in massa. «Quasi tutti quelli che conoscevo furono ammazzati quel pomeriggio», ha detto. Aveva dodici anni.
10 gennaio 1944, Algeciras
La barca del contrabandista è un vecchio peschereccio di circa 15 metri di lunghezza e 3 o 4 di larghezza. Ha una stiva capace a poppa e a prua ci sono gli alloggi. In coperta la ruota del timone è riparata da una tuga con i vetri incrinati; sotto c'è il motore. E là abbiamo trovato Armando, un uomo atticciato, capelli neri e una faccia sudicia dalla barba corta e ispida. Gli occhi scuri hanno una loro dolcezza, ma le labbra sono sottili e il sorriso tirato. Non mi dispiace, specialmente perché cucina uno stufato di fagioli, pomodori, aglio e chorizo. Ci dice che in una cabina troveremo indumenti che ci staranno meglio di qualsiasi cosa potrebbe darci lui di suo. Mangiamo, beviamo e io mi sento sazio e assonnato, ma non dimentico di chiedere ad A. di chi siano gli abiti che indossiamo. Appartenevano all'ultima ciurma, fatta fuori da alcuni italiani. R. gli domanda come ha fatto lui a cavarsela e A. risponde senza mezzi termini: «Ho ammazzato gli italiani».
Dopo la cadente e sordida Algeciras, Tangeri appare prospera, il porto è pieno di navi e tutte le gru sono al lavoro, le banchine gremite di marocchini nascosti sotto i cappucci a punta dei loro burnus o piegati in due sotto il peso dei carichi. Autocarri e automobili avanzano lentamente tra quella massa di umanità che si spinge, si urta; molte di quelle auto sono grosse macchine americane. Al di sopra del porto, in posizione dominante, l'Hotel Continental, mentre altri alberghi fiancheggiano l'avenida de España: il Biarritz, il Cecil, il Méndez. Mi sento male all'idea che mio padre possa essersi trasferito qui, per approfittare del momento favorevole.
R. salta sul ponte, ululando dalla contentezza. A. mi guarda con occhi inespressivi e mi domanda che gli stia succedendo. Gli dico che R. ha per i soldi il fiuto di un cane per una cagna in calore. A. si stropiccia il mento irsuto con la mano callosa. Mi piacerebbe disegnare quelle mani… e anche la faccia, sensuale e brutale insieme.
Una volta agli ormeggi, A. parla in privato con R., il quale poco dopo sparisce. A. fuma la pipa, mi dà carta e tabacco per arrotolarmi una sigaretta e tra una boccata e l'altra mi dice: «Non ho mai avuto una ciurma migliore». Io ribatto che ancora non abbiamo fatto niente. «Ma lo farete», replica lui. «R. penserà agli affari e tu ammazzerai.» Parole che mi gelano il sangue. Questo aveva visto sulla mia faccia? Poi mi rendo conto che R. deve aver chiacchierato.
11 gennaio 1944
Siamo salpati la notte scorsa. R. era tornato dopo qualche ora, seguito da un americano e da due marocchini che spingevano una carriola con due bidoni da 200 litri di nafta. A. non l'aveva mai comprata a un prezzo così basso. R. e A. hanno discusso un po' di altri prezzi e alle nove stavamo già caricando sacchi di ceci e di farina, oltre a otto bidoni di benzina. R. si offre di tenere i libri e A. dice: «Quali libri?» R. sa leggere e scrivere, ma ha un vero dono per i numeri. A undici anni teneva già i conti per i genitori. «Quando andavano al mercato compravano e vendevano, e io scrivevo tutto. Dopo sei mesi ero in grado di dire dove avevano guadagnato e dove avevano perso.» Quel mercato si trovava nel paese vicino. «Ora capisci perché i tuoi genitori sono stati ammazzati», gli dico. Non gli era mai venuto in mente.
13 gennaio 1944
Ci siamo tenuti al largo per un po' prima di avvicinarci al villaggio di pescatori di Salobreña approfittando del buio. A. lancia un segnale dal largo e dopo aver ricevuto la risposta che aspettava entra in porto. Mentre aspettiamo A. mi fa dare un'occhiata alla sua unica arma da fuoco, un fucile incrostato d'argento. «Un'opera d'arte per uccidere», commento. Sono un po' inquieto all'idea di avere solo due colpi, ma lui mi assicura che basta una fucilata a scoraggiare certa gente. Se ne vanno per concludere l'affare e io resto a guardia della barca. Dopo mezz'ora tornano litigando tra loro. I compratori non hanno voluto accettare i prezzi esagerati di R. e A. è furioso all'idea di dover cercare un altro porto e altri compratori. R. gli raccomanda di avere pazienza: si rifaranno vivi. A. passeggia avanti e indietro in coperta, R. fuma. Alle tre R. dice ad A. di avviare il motore e mentre R. si prepara a mollare gli ormeggi arrivano di corsa quattro uomini. Io sorveglio il ponte con lo schioppo. Una somma di denaro cambia di mano. Scarichiamo la merce e salpiamo prima dell'alba.