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15 gennaio 1944

R. dimostra ad A. che, se avesse accettato il prezzo che gli avevano offerto a Salobreña, non avrebbe guadagnato nulla e, se avesse pagato il prezzo che era abituato a pagare per il combustibile, ci avrebbe rimesso. R. lo assilla a proposito delle merci che imbarchiamo, un carico troppo pesante e poco redditizio per una barca piccola come la sua. Dice che dovremmo trattare sigarette. «Le sigarette sono la nuova moneta, si può comprare tutto con le sigarette. Franchi, marchi tedeschi, lire non sono niente.» A. impallidisce all'idea. Il mercato delle sigarette è in mano agli italiani e lui non vuole entrarci. R. indica me e dice: «È un soldato addestrato, era nella Legione, è stato in Russia. Non c'è italiano che gli stia a pari». R. ha fatto le sue ricerche, io non gli avevo mai detto niente di questo. A. mi guarda e io dico: «Non faccio niente con questo fucile da caccia. Se volete fare contrabbando di sigarette allora devo avere perlomeno un fucile mitragliatore». R. ride. «Un fucile mitragliatore! Quell'americano che ci ha venduto la nafta e la benzina può trovarci qualsiasi cosa. Un bowitzer, uno Sherman, un bombardiere B-17… anche se per un bombardiere ha detto che gli ci vorrà un po' più di tempo.»

29 gennaio 1944

Gli alleati sono sbarcati ad Anzio la scorsa settimana e R. teme che il suo prezioso mercato venga distrutto con la fine della guerra. Gli dico che gli alleati hanno ancora molto da fare e che i tedeschi non cederanno terreno tanto facilmente. R. non vede l'ora di avere una sua barca e io gli faccio notare che non abbiamo ancora guadagnato i nostri primi dieci dollari, figuriamoci poi il denaro necessario a comprare una barca, foss'anche a remi. R. insiste perché A. gli insegni tutto sulla navigazione e sul mare, come leggere una carta nautica, come tracciare una rotta, come usare la bussola e navigare con le stelle. Partecipo anch'io a queste lezioni.

20 febbraio 1944

A. fa a modo suo e stiamo trasportando regolarmente ceci, farina e benzina, ma R. riesce a mettersi d'accordo per un trasporto di pepe nero in Corsica a un costo molto basso. Chi spedisce è un tedesco arrivato da Casablanca: ha comprato il carico da un ebreo della città. Non riesco a immaginare che cosa se ne facciano i corsi di tutto quel pepe nero e quando il tedesco viene a sapere che io parlo la sua lingua e ho combattuto in Russia, mi confida che in Corsica il carico verrà trasbordato e finirà in Germania in una fabbrica di munizioni.

24 febbraio 1944

Abbiamo attraccato in Corsica e R. è contentissimo di aver preso contatti sia con i tedeschi sia con i corsi. Sembra che in futuro trafficheremo con la Corsica trasportando carichi di sigarette che i corsi penseranno a inviare a Marsiglia e a Genova. Come R. fa notare ad A., abbiamo guadagnato di più, rischiando meno. A. non gli dà soddisfazione, si sente un monarca assoluto perché è padrone della barca e non capisce quanto l'intelligenza di R. sia importante per far lavorare con profitto il suo stupido peschereccio.

Conversazione con A. a proposito delle differenze tra contadini e pescatori: i pescatori sono umili nei confronti del mare, la potenza del mare li fa sentire uniti, si aiutano sempre a vicenda. I contadini hanno solo il loro pezzo di terra e questo li rende meschini e possessivi, non sono mai umili, solo diffidenti. E taciturni, perché qualsiasi cosa venga detta potrebbe dare un vantaggio ai vicini. È nella loro natura difendere ed espandere la proprietà. Se un contadino vede il suo vicino inciampare e cadere, pensa subito alle varie possibilità che questo può offrirgli. A. finisce dichiarando: «Io sono un pescatore e il tuo amico R. è un contadino».

1o marzo 1944

Abbiamo consegnato il carico ai corsi e ci siamo diretti a Napoli con la stiva vuota alla ricerca di un italiano con cui trattare. Dai corsi abbiamo saputo che occorre il loro permesso. A. non scende a terra e io mi rendo conto di quanto l'incidente con gli italiani lo abbia scosso.

12 marzo 1944

R. è deciso a dimostrare ad A. quanto denaro si può fare con un traffico ben organizzato con gli italiani. Abbiamo la barca piena di Lucky Strike, quasi non ci è rimasto un posto per dormire tanti sono gli scatoloni, le stecche, perfino i pacchetti sciolti. A. è preoccupato, ha messo tutti i suoi soldi in quest'unica partita. Scivoliamo verso il largo nel golfo di Napoli con il buio e restiamo in attesa nell'oscurità fredda di un mare liscio come l'olio. R. viene nella cabina dove me ne sto con il fucile mitragliatore sulle ginocchia. Mi dice di tenermi pronto e di non farmi vedere; al primo accenno di guai non devo mettermi a discutere, ma ammazzarli tutti. «Credevo che avessimo avuto il permesso», obietto. «Qualche volta prima bisogna far vedere chi siamo per ottenerlo. Non c'è mai niente di certo con questa gente.» Gli domando perché non l'abbia detto ad A. e lui dice: «Ognuno deve saper ragionare per conto suo. Se ci si affida agli altri si rischia».

Controllo che tutti e quattro i caricatori siano in ordine e il fucile mitragliatore pronto a fare fuoco. Sciabordio dell'acqua contro le murate. Dopo qualche minuto si sente il rumore di un motore che si avvicina. Spengo la sigaretta, salgo nella tuga e mi rannicchio al di sotto del vetro incrinato. Avverto un cambiamento in R., ma la barca ci è addosso e non ho tempo di pensare a questo. Mentre l'imbarcazione si affianca alla nostra, a bordo si accende una luce. I parabordi fatti con vecchi copertoni cigolano e stridono mentre le due barche si toccano. Odo voci italiane, musicali e per nulla minacciose. Sbircio dal vetro. A. e R. sono in piedi alla battagliola a circa tre metri da me. L'italiano capisce la nostra lingua. Due uomini scavalcano la nostra battagliola a poppa e si portano sul lato buio della tuga. So che qualcosa non va. Sento i due dietro la paratia, il fruscio della stoffa dei loro abiti. È questo il primo segno di guai? Si sente un grido e io non esito più e sparo attraverso la parete di legno. Mi precipito fuori e salto sulla barca degli italiani. Sulla nostra coperta non vedo nessuno. Perlustro la poppa della barca italiana. All'improvviso il motore si avvia e io sparo contro la tuga uccidendo due uomini. Rimetto il motore in folle e la barca si allontana alla deriva dalla nostra. Resto in ascolto, poi controllo il ponte e scendo sotto coperta. La cabina è vuota. La porta della stiva si apre sul buio puzzolente di nafta. Trovo una pila elettrica nella cabina e, con le spalle appoggiate alla paratia, illumino la stiva. Niente. Nessuno sparo. Un ragazzo, massimo diciassette anni, è rannicchiato in un angolo della stiva. Addosso gli trovo soltanto un coltellino. Trema dalla paura. Lo trascino in coperta. Nelle onde di oscurità è ancora visibile lo scafo bianco del peschereccio di A., poi si accende una luce nella tuga e il motore si avvia. R. è al timone. Il ragazzo italiano, in ginocchio, sta pregando. Gli dico di stare zitto, ma ha ormai trovato il ritmo della preghiera. R. mi lancia una cima. «Tutti morti?» mi domanda. Io indico il ragazzo ai miei piedi. R. annuisce. «Meglio ammazzare anche lui», dice. Il ragazzo geme. R., che è bagnato fradicio, mi accorgo, mi consegna una pistola.