«Ho bisogno di un motivo migliore per ucciderlo», dico.
«Ha visto tutto», risponde R.
«Forse è ora che ti sporchi le mani anche tu.»
«Me le sono già sporcate», ribatte.
Ho la pistola in mano. Trascino il ragazzo fino alla battagliola, la testa gli ciondola fuori bordo, il pianto gli si strozza in gola. Gli sparo dietro l'orecchio. Restituisco la rivoltella a R., pensando: di questo sono capace.
La stessa mano che ha premuto il grilletto guida ora le parole con la penna e io non sono più vicino di prima a capire come possa essere uno strumento di creazione e di distruzione al tempo stesso.
Facciamo rotta per la Corsica e durante la traversata buttiamo a mare i cadaveri. Porto la barca italiana ad affiancarsi all'altra, dobbiamo essere in due per sollevare ciascun corpo. Quando arriviamo a quello di A. io dico che dovremmo onorarlo con una preghiera. R. fa spallucce. Mi regolo come fosse stato un compagno della Legione e chiamo il suo nome, rispondendo: «Presente!» Mentre lo caliamo in mare, vedo che è stato colpito due volte, alla spalla e alla nuca.
Scarichiamo le sigarette e mettiamo le barche in cantiere ad Ajaccio, per sistemarle e ripitturarle usando i soldi guadagnati con le sigarette. R. scompare per un giorno intero e torna con i documenti per entrambe le barche a nome suo e mio. Salpiamo per Cartagena e registriamo le imbarcazioni come battenti bandiera spagnola, cambiando i nomi. Non abbiamo avuto il tempo di parlare di quanto è successo e, con il passare dei giorni, l'incidente si allontana sempre di più e ogni ricordo di A. svanisce. Constato che R. ha un vero talento per chiudere le porte dietro di sé. Il legame che ha con me deriva dal fatto che mi ha affidato l'unico ricordo importante per lui e cioè la morte dei suoi genitori. Credo sia stato allora che ha cominciato a ritenere la memoria non un fattore di chiarezza, ma un'interferenza inopportuna: offrendo solo nostalgia in cambio del vuoto che si ha dentro, non ha nessun valore.
14 marzo 1944
Conversazione con R.
Io: Che cosa è successo con gli italiani?
R.: Lo hai visto, c'eri anche tu.
Io: Non ho visto come è cominciato.
R.: Allora perché hai aperto il fuoco?
Io: Quei due non avrebbero dovuto salire a bordo della nostra barca. Ho fatto fuoco al primo segno di guai… come mi era stato ordinato.
R.: Tutto qui?
Io: Ho udito un grido… mi è sembrato un segnale.
R.: L'italiano era armato. Ho gridato. Lui ha sparato ad A. Io mi sono buttato in mare. Ho sentito il mitragliatore fare fuoco e da come si sono messi a correre lo hanno sentito anche gli italiani.
Io: A. è stato colpito due volte.
R.: Che vuoi dire?
Io: Gli hanno sparato alla spalla e alla nuca.
R.: Io ero in acqua. Forse l'italiano ha tirato due volte.
Io: Dove hai preso quella pistola?
R.: Perché questo interrogatorio?
Io: Voglio sapere che cosa è successo. Hai detto che ti sei sporcato le mani. Hai detto che bisogna far vedere chi siamo per ottenere il permesso da quella gente.
Lunga pausa durante la quale decido che non saprò mai che cosa passa per la testa di R.
R.: La pistola apparteneva a uno degli italiani che hai ammazzato.
Perlomeno ha risposto, anche se con una menzogna.
23 marzo 1944
Un'altra informazione su quella che ormai io chiamo «la notte brava». A Tangeri vado dall'americano e gli chiedo un altro caricatore per il fucile mitragliatore e altri proiettili per la pistola che ha venduto a R., e senza esitazione lui mi dà una scatola di proiettili calibro .45. Mi dice anche di sfuggita che la cosa migliore che gli alleati abbiano fatto per il commercio è affidare Napoli a Vito Genovese. Non conosco questo nome e l'americano mi rivela che è il capo della camorra, cioè, come apprendo in seguito, la versione napoletana della mafia siciliana.
Da quando ci siamo imbarcati in questo affare R. è cambiato, non è più simpatico come prima, usa il suo fascino a comando, quando gli serve. Il fatto è che R. è stato sguinzagliato nel mondo con un solo ricordo terribile, la morte dei genitori. Quando ho detto, senza riflettere, che erano stati ammazzati proprio a causa del suo acume negli affari è come se lo avessi infilzato con una baionetta incandescente. Il senso di colpa che ho creato in lui lo ha reso spietato e selvaggio. Ha fatto di me il suo socio, ma non so perché, dato che non sembra aver bisogno di nessuno.
30 marzo 1944, Tangeri
R. mi ha dato i miei cento dollari di paga. Mi dice di tenerli e di cambiarli solo per le pesetas che mi servono. Lo informo che intendo riprendere la pittura e lui mi dice che allora non ho imparato niente.
Io: È quello che devo fare.
R.: E io rispetto la tua scelta. (non è assolutamente vero)
Io: Come dici tu, ognuno deve pensare per sé.
R.: Scusa, ma quello che fai tu è non pensare.
Io: Voglio vedere fin dove posso arrivare.
R.: E tu credi che il talento abbia qualcosa a che fare con il successo nel mondo dell'arte?
Io: Aiuta.
R.: Allora sei un idiota.
Io: Non pensi che van Gogh, Gauguin, Manet e Cézanne avessero talento? Ma sai poi di che cosa sto parlando?
R.: Lo scemo pensa sempre che tutti gli altri siano scemi. Certo che so chi sono, quelli avevano il genio.
Io: E io no?
R. alza le spalle.
Io: E da quando sei un esperto d'arte?
Alza le spalle di nuovo e fa un cenno di saluto a qualcuno che passa. Siamo seduti a un tavolino all'aperto del Café de Varis in place de France.
Io: Come fa un ragazzino di campagna, figlio di contadini di un sudicio pueblo nei paraggi di Almería a sapere qualcosa di arte?
R.: Come fa un ex legionario a essere un genio? El Marroquí? È così che firmerai le tue opere?
Io: Il genio non fa preferenze.
R.: Ma chi decide che uno lo è? Gauguin e van Gogh erano forse famosi da vivi?
Io: Che cosa ti fa credere che io voglia diventare famoso?
R. non risponde, ma mi guarda con un'intensità tale che mi rendo conto di stare seduto di fronte a una persona che ha trovato il suo vero ambiente, una persona assolutamente sicura di sé e che vede in me qualcosa che non ho visto io stesso.
R.: Perché tieni un diario? Perché vuoi scrivere la tua vita?
Io: Scrivo solo quello che accade intorno a me e che accade a me.