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25 gennaio 1946, Tangeri

Ho un po' di majoun. Lo spalmo sul pane e lo mangio nella stanza strana dal soffitto alto, annaffiandolo con tè alla menta. Non faccio in tempo a posare il bicchiere sul vassoio che cado in un intontimento beato, poi, dopo qualche minuto, sento il mio corpo riprendere vita dalla punta dei capelli ai calli dell'alluce. Sto fluttuando in alto, a pochi centimetri dal soffitto e guardo fuori dal traliccio della finestra affacciata sui tetti della medina, sulle mura e sul mare grigio in lontananza. Un sole acquoso mi disegna la trama della finestra sulla camicia. Agito le mani e le gambe, preoccupato all'idea di essere a sette metri da terra senza un sostegno visibile. Chiudo gli occhi e mi rilasso. Comincio ad avere freddo, un freddo terribile, nemmeno in Russia ho sofferto così. Apro gli occhi e vedo il soffitto imbiancato a calce e su quella distesa bianca piccole macchie nere che sì rivelano mucchi di cadaveri congelati. Sono molto spaventato. Con uno sforzo di volontà cerco di uscire da quello stato, che tuttavia dura per ore. Quando mi sveglio è buio. Stamani ho visto chiazze di umidità sul soffitto, causate dalle piogge invernali. Grappoli. Spore. Morti viventi.

XXI

Giovedì 19 aprile 2001, Jefatura, calle Blas Infante, Siviglia

Falcón, convinto che il Raúl dei diari di suo padre altri non fosse che Raúl Jiménez, chiamò Ramón Salgado, che gli confermò i suoi programmi: il gallerista avrebbe cenato presto a Madrid, avrebbe preso il treno ad alta velocità e sarebbe stato di ritorno a casa verso l'una di notte. La mattina seguente aveva un altro appuntamento e la sua segretaria, Greta, gli propose di vederlo per colazione, un incontro anche troppo lungo per Falcón, che non desiderava trascorrere tanto tempo con Salgado; d'altro canto sarebbe stato divertente vedere la faccia del vecchio mercante nel sentir nominare la MCA Consultores.

La Jefatura era quieta e Falcón si appoggiò allo schienale cercando nella memoria un caso in cui il nome di Raúl Jiménez fosse stato pronunciato da Francisco Falcón. Nel 1961, quando sua madre era morta, suo padre non faceva altro che dipingere. Javier non riusciva a ricordare che si fosse mai occupato di affari e da quando si era stabilito a Siviglia nessuno con quel nome era mai venuto nella loro casa. Era sorprendente, inoltre, che suo padre non figurasse tra le foto delle celebrità di Jiménez. Evidentemente si erano persi di vista.

Dondolandosi sulla sedia girevole, diede un'occhiata ai rapporti della squadra. Si segnalava un'auto a cinque porte grigia intorno alla piccola area industriale alle spalle del cimitero. A uno degli uomini della sorveglianza era sembrata una Golf, all'altro una Seat. La targa era troppo sporca per essere leggibile, anche se uno dei due aveva visto le prime lettere, SE, sigla che la qualificava come una targa di Siviglia. Il rapporto di Serrano riferiva che solo le auto che si comportavano in modo sospetto venivano notate e quella macchina grigia aveva girato lentamente intorno alle fabbriche dietro al cimitero.

Il rapporto di Pérez sulle Mudanzas Triana era ben fatto e approfondito: aveva perfino inserito una pianta del magazzino con l'indicazione dello spazio affittato da Jiménez. Colloqui prolungati con il capodeposito, con il signor Bravo e con gli altri dipendenti avevano dimostrato che sarebbe stato impossibile per l'assassino avere il tempo necessario per tutte le riprese della Familia Jiménez, se avesse lavorato nell'azienda. Il giorno in cui il Betis aveva perso contro il Siviglia 4 a 0 tutto il personale regolare era impegnato e anche la mattina del funerale di Raúl Jiménez tutti avevano prestato servizio. A Pérez era stata presentata una lista di collaboratori occasionali impiegati nel corso dell'ultimo anno e alla fine era stato ammesso che alcuni di questi non avevano il permesso di lavoro. Solo una piccola percentuale aveva fornito l'indirizzo. Il rapporto sui filmini familiari, invece, consisteva di due righe di fatti essenziali.

Fernández aveva mostrato la foto di Eloisa Gómez a tutte le persone incontrate nel cimitero. Nessuno ricordava di averla vista. Gli addetti alla manutenzione del verde non lavoravano di sabato e di domenica. L'area destinata alla raccolta dei rifiuti era cintata da una fitta siepe. Secondo Fernández, sarebbe stato più che possibile uccidere Eloisa Gómez e nasconderla lì il sabato mattina: quel giorno i cancelli del cimitero si aprivano alle otto e trenta, ma prima delle dieci i visitatori erano poco numerosi.

Dopo aver scorso i rapporti, Falcón si dedicò a elaborare la serie di domande destinata a far crollare le solide difese di Consuelo Jiménez, ammesso che ne avesse ancora.

Arrivò la squadra e Falcón mise tutti al corrente dei progressi, progressi lenti, e riconfermò tre uomini nel lavoro al cimitero e nella zona industriale. Pregò Ramírez di uscire, disse a Pérez di non essere convinto che egli avesse l'entusiasmo necessario per quel caso e lo destinò a un'altra indagine. Pérez se ne andò, furioso.

Ramírez rientrò e rimase in piedi accanto alla finestra, rigirandosi l'anello sul dito, con l'aria di voler picchiare qualcuno. Aveva capito perfettamente quanto era successo. Falcón gli ordinò di accompagnare qualcuno della scientifica nella stanza di Eloisa Gómez per una ispezione accuratissima. Ramírez uscì senza aprire bocca. Falcón chiamò allora Consuelo Jiménez, la quale, come al solito, accettò di vederlo immediatamente.

Si incontrarono nell'ufficio vicino a plaza de la Alfalfa. La signora Jiménez, avendo intuito che Falcón era ben armato, tentò qualche tattica diversiva e lo lasciò solo per cinque minuti mentre supervisionava la preparazione del caffè da offrirgli.

«Non è soddisfatto del rapporto dell'Inspector Ramírez sulla nostra… discussione?» domandò alla fine appoggiandosi allo schienale della poltrona, la tazzina di caffè in mano, le gambe accavallate, il piede che si muoveva su e giù.

«Sì, considerando com'è andata. È un bravo poliziotto e un uomo sospettoso. Sa quando qualcuno mente, non dicendo la verità o tacendola. Lei ha soddisfatto la sua curiosità su due punti.»

«Siamo tutti bugiardi, Inspector Jefe. Siamo programmati per mentire. Io voglio molto bene ai miei figli e tutto sommato sono dei bravi ragazzi, ma… dicono bugie. Hanno l'istinto di mentire. Pensi a tutte le volte che sua madre entrava nella stanza e chiedeva chi avesse rotto quel bicchiere o quel piatto e a quante volte si sentiva rispondere: 'È caduto da solo'. Gli esseri umani sono ambigui.»

«Crede forse che nel mio lavoro io tratti con persone che vogliono dirmi la verità?» domandò Falcón. «L'omicidio induce a negare più di altri delitti, fatta eccezione, forse, per lo stupro. Perciò, se nel corso di un'indagine ci troviamo di fronte a qualcuno con un movente plausibile e che è incline a dissimulare costantemente, com'è ovvio, noi lo interroghiamo più e più volte, per cercare di scoprire che cosa stia nascondendo.»