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3 settembre 1946, Tangeri

P. viene per un'altra seduta di posa. Non appena apro la porta scorgo un'espressione di sfida nei suoi occhi, ma anche di divertimento e di ironia. Siamo a metà pomeriggio e fa caldo. Comincio a lavorare in silenzio come al solito, ma perdo la concentrazione e lei si mette a girare per lo studio in cerca di qualcosa di nuovo. Trova l'hashish tra i barattoli e i pennelli sul tavolo e lo annusa. Sa che cos'è, ma non l'ha mai provato. Mi chiede di fumarlo. Non l'ho mai vista nemmeno con una sigaretta tra le labbra, ma le preparo ugualmente il narghilè. Dopo qualche minuto si lamenta di non provare niente. Le dico di avere pazienza e lei emette una specie di piccolo gemito, come al suo primo contatto sessuale, immagino. Ha uno sguardo remoto negli occhi, quasi si fosse ritirata dentro di sé. Si lecca lentamente, sensualmente, le labbra. Vorrei posarvi la mia bocca. Mi perdo, osservando il cambiamento della luce nella stanza. P. dice: «Credo che dovresti disegnarmi come sono davvero». È quanto cerco di fare da settimane. Con movimenti rapidi, fluidi, si alza, si toglie la blusa, lascia cadere la gonna, si slaccia il reggiseno e si sfila le mutandine. Sono ammutolito. P. rimane in piedi davanti a me, i lunghi capelli neri sulle spalle nude, le mani sulle cosce a incorniciare il triangolo del pube. Lentamente si porta la punta delle dita sulle spalle e lentamente le fa scendere sui seni, fino ai capezzoli scuri che si inturgidiscono al tocco. Le dita tracciano la linea del corpo. Siamo entrambi così immersi nella sensualità del momento che mi sembra siano le mie dita a sfiorarla. «Io sono così», dice. Afferro i carboncini e i fogli da disegno, la mia mano vola su di loro rapida, audace. Devo averla disegnata sei, sette, otto volte nello spazio di pochi minuti. Finisco e i fogli scivolano sul pavimento. Lei continua a starmi davanti, eretta, nuda, di una bellezza assoluta, con la suprema sicurezza della donna completa ed è quell'essenza misteriosa che io sto vedendo e che riesco a cogliere. Poi, come accade ogni tanto con l'hashish, all'improvviso è tutto diverso. P. si riveste, si avvia alla porta e io rimango lì in piedi, con i disegni ai miei piedi. Li guarda, poi guarda me. «Ora sai», dice. Le sue labbra mi sfiorano la bocca morbide come la sabbia e fresche come l'acqua, il lampo della sua lingua sulla mia rimane con me per ore.

20 settembre 1946

Tornato da Tarragona ho saputo che P. è in Spagna con sua madre. È morta una sorella della madre. Il dottore non sa quando ritorneranno. Mi sento orfano e stranamente libero. Ahmed e il suo amico vengono qui la sera e io sono in vena di baldorie. Notte di totale edonismo.

23 settembre 1946

Mostro a Carlos i disegni a carboncino. È sbalordito. Per la prima volta dice qualcosa sul mio lavoro e la parola è «eccezionale». Più tardi, mentre fumiamo insieme, dice: «Vedo che è cominciato il disgelo. Spero che Ahmed e Mohammed ti siano stati di aiuto». Lo guardo come se non capissi di che cosa stia parlando. Dice che me ne manderà altri. «Non voglio che ti annoi.» Io non parlo.

30 ottobre 1946

Ancora nessuna notizia da P., e ora anche suo padre è partito per la Spagna. L'unico possibile indirizzo per rintracciarli è Granada. R. ha venduto un terreno a un americano che vuole costruire un albergo. Una condizione per la vendita del terreno è che siamo noi a costruire. È il nostro primo contratto importante. Io vorrei occuparmi del progetto, ma R. insiste perché tenga separati lavoro e arte. «Tutti quelli che hanno rapporti di affari con me sanno che tu sei il mio consulente per la sicurezza… non posso farti anche progettare la reception.»

XXIII

Venerdì 20 aprile 2001, casa di Falcón, calle Bailén, Siviglia

Farsi strada a gomitate attraverso l'oblio non era facile. Com'era possibile che il sonno potesse risultare così estenuante? Falcón affiorò alla superficie, farfugliando come un vecchio abbandonato da tutti in una casa di riposo per invalidi ormai vicini alla destinazione finale. Il suo cellulare stava squillando, gli parve di ricevere una scarica di scintille attraverso le ossa del volto. Il palato era asciutto, arido. Lo squillo cessò. Falcón tornò a sprofondare nella tomba di ovatta del sonno indotto dalle pillole.

Erano passate ore o solo minuti? Il folle squillo del telefonino pareva scavare una galleria nella sua testa. Emerse dal sonno con violenza, agitando le braccia. Trovò la luce, il telefono, il pulsante, succhiò acqua fredda per ammorbidire la lingua, diventata un blocco di argilla.

«Inspector Jefe?»

«Aveva chiamato prima?»

«No, signore.»

«Che c'è?»

«Abbiamo appena avuto la segnalazione di un altro cadavere.»

«Un altro cadavere?» ripeté Falcón, la testa completamente imbottita.

«Un omicidio. Come Raúl Jiménez, stessa cosa.»

«Dove?»

«A El Porvenir.»

«Indirizzo?»

«Calle de Colombia, numero 25.»

«Conosco questo indirizzo.»

«La casa appartiene a Ramón Salgado, Inspector Jefe.»

«È lui la vittima?»

«Non siamo ancora sicuri. Abbiamo appena mandato sul posto una pattuglia. Il cadavere è stato visto dal giardiniere dall'esterno.»

«Che ore sono?»

«Le sette appena passate.»

«Non chiami nessun altro del gruppo. Vado da solo», disse Falcón. «Ma sarà meglio avvertire il Juez Calderón.»

Mentre interrompeva la comunicazione il nome lo trapassò come una lama. Sotto la doccia tenne il capo chino, le braccia indebolite dalla crudeltà delle parole di Inés, la sera prima. Quasi si mise a singhiozzare all'idea di affrontare Calderón. Si rasò, guardandosi nello specchio da ogni angolazione con aria interrogativa. Non ne avrebbero parlato, certo che no. Come si poteva parlare di tali argomenti tra uomini? Sarebbe stata la fine di ogni rapporto con Calderón. «Cose… che tu non saresti nemmeno capace di sognare.»

Infilò la testa sotto l'acqua fredda, mandò giù un Orfidal, si vestì e salì in auto. Controllò i messaggi al primo semaforo rosso: una chiamata alle 2.45. Il messaggio registrato cominciava con una musica, l'Adagio di Albinoni, attraverso la quale si udiva uno squittio soffocato, disperato come se qualcuno, imbavagliato, cercasse di gridare o di supplicare. Mobili rovesciati sul pavimento di legno, poi la musica aumentava di volume, i violini sottolineavano la sofferenza di una perdita. Poi una voce pacata: «Sai che cosa fare».

Nella musica penetrò un osceno gorgoglio, un rantolo che poteva essere prodotto soltanto da una gola premuta. La lotta continuò attraverso i picchi emotivi dell'Adagio mentre i tonfi dei mobili diventavano frenetici, poi uno schianto e un silenzio improvviso un attimo prima che i violini si riaffermassero su una nota ancora più alta e la comunicazione venisse interrotta.

I clacson suonarono inviperiti alle sue spalle e Falcón ripartì verso il fiume e un altro semaforo rosso. Chiamò la Jefatura e chiese di essere collegato con la pattuglia inviata sul posto. Non erano ancora entrati in casa, ma confermavano la presenza di un corpo sul pavimento al centro di una grande stanza affacciata sulla veranda e sul giardino, sul retro della casa. Il corpo era legato a una sedia, rovesciata di lato, e sul parquet si vedeva una grande quantità di sangue. Falcón disse agli uomini di cercare la domestica o un vicino che avesse le chiavi.

Al parque de María Luisa si allontanò dal fiume e seguì la avenida Eritaña, superò una stazione di polizia e la Guardia Civil, a poche centinaia di metri dalla casa di Ramón Salgado.